Omelie del Vescovo image
Omelia Messa Crismale 2018

Carissimi confratelli sacerdoti, è a voi in modo particolare, anche se non esclusivo, che questa mattina il vostro Vescovo rivolge la sua parola, ma soprattutto apre il suo cuore e la sua mente. Vedo vivo e operante in voi lo Spirito Santo che un giorno avete ricevuto in pienezza con l’imposizione delle mani. So che siete coscienti di essere stati consacrati con il crisma, olio profumato che vi impegna a realizzare una santità autentica, una santità che vi spinge alla missione di portare il Vangelo in questo nostro mondo così secolarizzato, alle stesse nostre comunità cristiane, che pur conoscendo Dio ed avendo fatto esperienza di Lui sovente vivono troppo immerse in ciò che le allontana da Lui. Voi siete i sacerdoti che, insieme con me, siete chiamati a svolgere il ministero in un contesto culturale che ci appare così allergico ai valori di cui noi siamo annunciatori e portatori. Tuttavia, guardandovi uno ad uno, citando Isaia (1a lettura), con grande fiducia nel cuore vi manifesto la mia stima perché “voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti … coloro che vi vedranno riconosceranno che voi siete la stirpe benedetta dal Signore” (Cf Is 61, 6.9). E due righe più avanti lo stesso profeta ci suggerisce di dire: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio” (Is 61, 10).
  1. Verifichiamo la nostra identità
Questa è una giornata importante di festa, ma anche di verifica della nostra identità. Questa è l’occasione solenne davanti a Dio e a tutta l’Assemblea presente di guardarci dentro, senza veli e senza timori, perché prima ancora delle nostre miserie ci sono i tesori da scoprire, quei tesori che il Signore ha messo nel nostro cuore e nelle nostre mani. Un sacerdote perde l’orientamento di vita quando non vede più la grandezza alla quale Dio lo ha elevato e non crede più fino in fondo a quell’amore personale di amicizia e di predilezione con il quale Gesù lo ha scelto per essere “uno dei suoi”.
Andiamo indietro nella nostra vita: pensiamo a quelle persone che fin dalla nostra infanzia e fanciullezza ci hanno indicato Gesù come il miglior amico che potevamo trovare; pensiamo a quando abbiamo avvertito lo sguardo di Gesù su di noi, “e Gesù, fissatolo, lo amò” (Mc 10, 21), e abbiamo sentito con chiarezza la sua chiamata, abbiamo risposto positivamente con entusiasmo, ci siamo preparati al ministero e ne abbiamo assunto gli impegni mettendo in gioco tutta la nostra vita.
Ora ci chiediamo, a distanza di tanti o pochi anni dal giorno radioso della nostra Ordinazione, il nostro ministero lo viviamo come dono o come peso?
  • Lo si sente e lo si vive come “dono” se la nostra attenzione è concentrata su Gesù e su quello che Egli ha voluto fare delle nostre persone:
  • Siamo “suoi” non solo perché legati a Lui a titolo particolare in quanto discepoli, ma soprattutto perché “consacrati” a Lui e alla edificazione del suo Regno con il dono dello Spirito Santo ricevuto con l’imposizione delle mani del Vescovo che ci ha abilitati ad agire “in persona Christi”.
  • Siamo “mandati” nel mondo per portare quella Parola di verità, che è Cristo stesso, unica capace di dare prospettiva di salvezza. Deve colmarci di stupore il constatare che, nonostante la nostra povertà, Gesù abbia posto la sua fiducia proprio su di noi mettendo nelle nostre mani quei tesori di grazia che arrivano alle diverse persone attraverso il nostro ministero.
  • Siamo da Gesù anche “santificati” perché abitati dalla Santissima Trinità: una presenza questa che ci fa partecipi della santità divina che ci rende capaci di realizzare noi stessi anche nella nostra umanità in quanto ci abilita ad amare con cuore puro, come è puro il cuore di Dio.
  • Il rischio invece di vivere il ministero come “peso” lo si corre se impostiamo la nostra vita seguendo la logica del mondo. Questo accade quando:
  • si vuole ottenere risultati immediati;
  • si cerca di avere gratificazioni personali, successo, popolarità;
  • si organizza la nostra giornata in modo da rimetterci il meno possibile di ciò che è nostro, mentre Gesù ci chiede di vivere la logica del chicco di grano, che per portare frutto deve morire: “Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12, 25).
  1. Camminare con la Chiesa
L’unità del Corpo mistico di Cristo, che a me piace immaginare come rappresentata da quella veste di Gesù senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo, che sul Calvario nemmeno i soldati hanno osato strappare, ma se la sono tirata a sorte, deve essere custodita e garantita da tutti, specialmente da noi sacerdoti. Questa unità si esprime in modo particolare nella testimonianza di una comunione sincera:
  • A livello universale dobbiamo vivere ed agire in comunione con La SS.ma Trintà che governa con potenza e forza la Chiesa, edificata dal Sangue di nostro Signore Gesù Cristo dagli attacchi che gli vengono inferti dal maligno che cerca in ogni occasione di distruggerla. Questo è il tempo della vigilanza, soprattutto per illuminare con la dovuta chiarezza i nostri fedeli, i quali molto spesso sono tratti in inganno da tante eresie e contraddizioni dottrinali.
  • All’interno della Prelatura, la comunione ecclesiale ci impegna a vivere una sintonia di fede da parte dei presbiteri nei confronti del proprio Vescovo, e viceversa: cioè io, a mia volta devo, e vi confesso che questo lo sento come un impegno che cerco di vivere con sincerità, dimostrare a tutti voi, nessuno escluso, non solo sentimenti, ma anche atteggiamenti ispirati alla paternità e fraternità. Se c’è questa volontà reciproca di comunione spirituale, anche se talvolta ci possono essere idee e sensibilità diverse, allora la nostra pastorale cammina ed è benedetta dalla grazia del Signore.
  • A livello di cappellanie con i nostri fedeli. Su questo versante conservare e coltivare la comunione significa accogliere tutti senza preferenza di persone, ma anche farsi carico di tutti con quell’ansia missionaria che ci spinge a pensare ai lontani, a quanti potrebbero ricominciare “da adulti” un più cosciente e responsabile cammino di fede, così da suscitare in tutti il desiderio di farsi sinceri cercatori di Dio.
2 Il nostro offertorio pasquale a Gesù
Come avviene nella Celebrazione eucaristica dove noi presentiamo al Signore povere cose, come il pane e il vino, le quali però, con la potenza dello Spirito Santo, diventano il Corpo e il Sangue di Cristo, così ora in questa Solenne Celebrazione, rinnovando le nostre promesse sacerdotali, noi mettiamo nelle mani di Cristo le nostre povere persone così da diventare nelle sue mani strumenti preziosi per la costruzione del suo Regno di Amore.
Questa è per me, cari confratelli, una delle solenni occasioni per manifestare a tutti voi la mia sincera riconoscenza per la vostra preziosa e generosa collaborazione al mio ministero.
  • Conosco le vostre difficoltà, delusioni e solitudini, e se questo stimola me a farmi sempre più capace di prossimità, mi suggerisce anche di ricordarvi che chi ha dato la sua vita al Signore Gesù, crocifisso e risorto, deve saper mettere in conto anche questa situazione: ogni risultato pastorale richiede il suo prezzo di sofferenza e di croce.
  • Vorrei che mi leggeste nel cuore per scorgere i sentimenti di affetto, amicizia e paternità che sempre mi animano anche quando vi chiedo il sacrificio di un nuovo servizio pastorale perché sempre queste scelte, frutto anche di discernimento con il mio Vicario, sono proposte, mai imposte, tenendo presenti le varie necessità che si presentano nella nostra Prelatura.
Conclusione
Il mio augurio pasquale a voi, al nuovo prossimo diacono e a tutti i presenti è di continuare il cammino spirituale e pastorale con la convinzione che Gesù è sempre al nostro fianco, come con i due discepoli di Emmaus, per offrirci la luce della sua Parola, il ristoro della sua Eucaristia e la gioia dell’entusiasmo ritrovato.
La Vergine Maria che scioglie i nodi, doni la sua protezione materna a quanti sono, come è stata Lei, ai piedi della croce, a quanti come noi che siamo ancora impegnati nel lavoro pastorale, e ci renda tutti forti nella fede nel Signore Gesù risorto nel quale, con il quale e per il quale vogliamo vivere il nostro ministero a lode e gloria della Santissima Trinità, ora e sempre. Amen.

Messa in Coena Domini

Cristo sacerdote istituisce il sacramento dell’amore
L’istituzione dell’Eucaristia come rito memoriale della «nuova ed eterna alleanza» è certamente l’aspetto più evidente della celebrazione odierna che del resto giustifica la sua solennità proprio con un richiamo «storico» e figurativo dell’avvenimento compiuto nell’ultima cena. Ma è lo stesso messale romano che invita a meditare su altri due aspetti dei mistero di questo giorno: l’istituzione del sacerdozio ministeriale e il servizio fraterno della carità. Sacerdozio e carità sono, in effetti, strettamente collegati con il sacramento dell’Eucaristia, in quanto creano la comunione fraterna e indicano nel dono di sé e nei servizio il cammino della Chiesa.
Gesù lava i piedi ai suoi: è un gesto di amore
E’ significativo il fatto che Giovanni, nel riferire le ultime ore di Gesù con i suoi discepoli e nel raccogliere nei «discorsi dell’ultima cena» i temi fondamentali del suo vangelo, non riferisca i gesti rituali sui pane e sul vino come gli altri evangelisti: eppure era questo un dato antichissimo della tradizione, riportato in una forma ben definita dal primo documento che ne parla, la lettera di Paolo ai Corinzi (prima lettura). Giovanni richiama l’attenzione sul gesto di Gesù che lava i piedi ai suoi e lascia, come suo testamento di parola e di esempio, di fare altrettanto tra i fratelli. Non comanda di ripetere un rito, ma di fare come lui, cioè di rifare in ogni tempo e in ogni comunità gesti di servizio vicendevole — non standardizzati, ma sgorgati dall’inventiva di chi ama — attraverso i quali sia reso presente l’amore di Cristo per i suoi («li amò sino alla fine»). Ogni gesto di amore diventa così «sacramento», cioè visibilizzazione, incarnazione, linguaggio simbolico dell’unica realtà: l’amore del Padre in Cristo, l’amore in Cristo dei credenti.
Gesù dà se stesso in cibo: è il sacramento dell’amore
Il Giovedì santo, con il suo richiamo «anniversario» all’evento dell’ultima cena, pone al centro della memoria ecclesiale il segno dell’amore gratuito, totale e definitivo: Gesù è l’Agnello pasquale che porta a compimento il progetto di liberazione iniziato nel primo esodo (cf prima lettura); il suo donarsi nella morte è l’inizio di una presenza nuova e permanente; «il suo corpo per noi immolato è nostro cibo e ci dà forza, il suo sangue per noi versato è la bevanda che ci redime da ogni colpa» (prefazio della ss. Eucaristia I). Partecipare consapevolmente all’Eucaristia, memoriale dei Sacrificio di Gesù, implica avere per il corpo ecclesiale di Cristo quel rispetto che si porta al suo corpo eucaristico. La presenza reale del Signore morto e risuscitato nel pane e nel vino su cui si pronuncia l’azione di grazie (cf seconda lettura), si estende, sia pure in altro modo, alla persona dei fratelli, specialmente dei più poveri (cf tutto il contesto della 1 Cor 11). «In questo grande mistero tu (o Padre) nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra» (prefazio della ss. Eucaristia II). Chi dunque fa discriminazioni, chi disprezza gli altri, chi mantiene le divisioni nella comunità «non riconosce il corpo del Signore». La sua non è più la Cena dei Signore, ma un rito vuoto che segna la sua condanna.
Il sacerdozio nasce dall’Eucaristia: è il dono per l’unità
All’interno della comunità, i rapporti reciproci sono valutati in chiave di servizio e non di potere, e trovano la loro più perfetta espressione nel momento dell’azione eucaristica. Chi  «presiede» la comunità e ne è responsabile, presiede anche l’Eucaristia: la raccoglie nella preghiera comune, come la unisce nelle diverse attività della parola e dell’aiuto reciproco.
Il Concilio Vaticano II afferma: «I Presbiteri… ad immagine di Cristo, sommo ed eterno Sacerdote, sono consacrati per predicare il vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti dei Nuovo Testamento… Esercitando, secondo la loro parte di autorità, l’ufficio di Cristo Pastore e Capo, raccolgono la famiglia di Dio, quale insieme di fratelli animati da un solo spirito, e per mezzo di Cristo nello Spirito li portano al Padre… » (LG 28). «Il senso ultimo del sacerdozio di Cristo e di ogni sacerdozio che da lui trae origine, è quello di essere modello per tutti coloro che offrendosi in lui, con lui, per lui in sacrificio a Dio gradito, mettono la loro vita a servizio dei fratelli…. Cristo e il suo mistero vive e perdura nella Chiesa; la Chiesa non fa altro che rendere attuale questo mistero di salvezza mediante la Parola, il Sacrificio, i Sacramenti, mentre riceve in sé per la forza dello Spirito Santo, la vita del suo Signore da testimoniare nel mondo… Da questa sacramentalità della Chiesa… scaturisce il significato essenziale della consacrazione-missione di quanti sono chiamati a predicare il Vangelo, a presiedere le azioni di culto e a svolgere un ruolo di guida del popolo di Dio» (Ordinazione del Vescovo, dei Presbiteri e dei Diaconi, Premesse, p. 12).
L’agnello immolato ci strappò dalla morte
Dall’«Omelia sulla Pasqua» di Melitone di Sardi, vescovo  (66-67; SC 123,95-101)
Molte cose sono state predette dai profeti riguardanti il mistero della Pasqua, che è Cristo, «al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen ». (Gal 1,5 ecc.). Egli scese dai cieli sulla terra per l’umanità sofferente; si rivestì della nostra umanità nel grembo della Vergine e nacque come uomo. Prese su di sé le sofferenze dell’uomo sofferente attraverso il corpo soggetto alla sofferenza, e distrusse le passioni della carne. Con lo Spirito immortale distrusse la morte omicida.
Egli infatti fu condotto e ucciso dai suoi carnefici come un agnello, ci liberò dal modo di vivere del mondo come dall’Egitto, e ci salvò dalla schiavitù del demonio come dalla mano del Faraone. Contrassegnò le nostre anime con il proprio Spirito e le membra del nostro corpo con il suo sangue.
Egli è colui che coprì di confusione la morte e gettò nel pianto il diavolo, come Mosè il faraone. Egli è colui che percosse l’iniquità e l’ingiustizia, come Mosè condannò alla sterilità l’Egitto.
Egli è colui che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno. Ha fatto di noi un sacerdozio nuovo e un popolo eletto per sempre. Egli è la Pasqua della nostra salvezza.
Egli è colui che prese su di se le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè e nell’agnello fu sgozzato.
Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato.
Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli. Egli è l’agnello che non apre bocca, egli è l’agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnella senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione.
Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l’umanità dal profondo del sepolcro.

Omelia della Domenica di Pasqua di Resurrezione del Signore

Fratelli e Sorelle carissimi, noi cristiani non seguiamo un perdente, ma un vincente. Gesù ha vinto sul peccato e sulla morte, ed è capace di far vincere noi che siamo in lui. Oggi è giorno solenne della vittoria per tutti noi. La carità ha vinto l’odio; la vita ha vinto la morte. La carità tutto spera, tutto sopporta, ci dice san Paolo, e questo lo abbiamo visto in Cristo: tutto ha sperato di fronte alla macchina di disperazione che gli aveva preparato il mondo e il demonio; tutto ha sopportato in mezzo al mulinare di insulti e di torture che ha subito. La carità tutto spera, fratelli e sorelle. Quante persone oggi hanno cessato di sperare. Non parlo delle disperazioni di fronte al dolore, di fronte ai fallimenti, parlo della disperazione di vedere un futuro nuovo, un mondo migliore. Molti, troppi, disperano, e per questo hanno estinto in loro la carità. Vero, a forza di sentire orrori, a forza di vedere dissoluzioni familiari, e altro, in molti è cessata la speranza, e quindi la carità (Cf. Mt 24,12). Molti, molti, sperano, ma sperano in modo debole, con speranza fondata sull’umano. Sperano, ma il raggio della loro speranza è debole, corto, incerto; sperano per loro, per i loro cari, per il loro lavoro, per i loro affetti, magari per la loro patria, magari anche per il mondo. Una speranza senza Cristo è una speranza debole, inconsistente, aperta sempre più a cedere alla disperazione, a quella estrema che giunge a dire: “Il male è; il bene non è”. Ma noi, fratelli e sorelle, abbiamo riposto la speranza in Cristo: Cristo è la nostra speranza. Chi non ama, non ha speranza; è pessimista, pensa male dell’uomo. Sì, pensa male dell’uomo, perché sempre più le creature di Satana gli si presentano davanti e le osserva sentendosene attratto, e pensa che l’uomo sia così, sia fatto così; che tutto il male nasca dalla stessa natura dell’uomo e non dalla perversione che un uomo sceglie. Terribile quando non si guarda più a Cristo e alle creature di Cristo, ai santi, agli uomini e donne trasformati in carità dall’azione dello Spirito Santo, e si finisce per combatterli. Oggi, fratelli e sorelle, è giorno di vittoria e di speranza di vittoria. La carità ha vinto prima di fronte alle seduzioni nei quaranta giorni passati da Gesù nel deserto, poi la carità ha vinto il dolore, l’angoscia. Poi la carità, l’amore del Padre, ha fatto vincere il Figlio vincitore, anche contro la morte risorgendolo. La tomba ha dovuto mollare la sua presa, la terra che accoglie le nostre spoglie mortali di fronte all’onnipotenza di Dio si è arresa di colpo, ed è diventata capace di accogliere il soffio ricreatore dello Spirito, che ricrea in Cristo l’uomo, e per mezzo di uomini ricreati in Cristo plasma la terra secondo Dio e non più secondo il peccato. Sperare negli uomini, negli uomini che idolatrano se stessi, e chiedono di essere idolatrati, è maledizione che l’uomo pronuncia su se stesso. Noi speriamo in Cristo, e i veri portatori di speranza sono quelli che sono in Cristo. Noi crediamo pensiamo bene dell’uomo, non ci lasciamo sgomentare di fronte alle creature plasmate dall’egoismo, dalla lussuria, dall’odio, dalla superbia. Noi, fratelli e sorelle, non ci sentiamo attratti da loro, ma vogliamo Cristo, e diciamo con la sposa del Cantico dei Cantici (1,4): “Trascinami con te, corriamo!”, e sempre con lei affermiamo davanti a tutti (5,10): “L’amato mio è bianco e vermiglio, riconoscibile fra una miriade”. “Il primo giorno della settimana”, quando ancora era buio, la pietra venne sbalzata lontano. E’ mattino, ancora è buio, il sole non è ancora sorto sull’orizzonte, ma ecco, il Sole divino – Cristo – esce dal buio della tomba per creare un giorno nuovo. La risurrezione è un nuovo comando di Dio (Cf. Gn 1,3): “Sia la luce!”. Gesù, vero Dio e vero uomo, nel tempo era stato l’Uomo-Dio, nella risurrezione divenne piuttosto il Dio-uomo, perché la sua umanità fu innalzata alla gloria. Quel primo giorno della settimana è l’inizio di un continuo di giorni nuovi, segnati dall’azione dello Spirito Santo nella Chiesa e nella storia. Le tenebre del peccato sono dissolte, ma potranno oscurare la Luce. Le tenebre potranno tentare di addensarsi, di distruggere la Chiesa, la lampada che irraggia la Luce, ma lampada reggerà sempre, illuminerà sempre. Anzi, il suo cristallo diventerà sempre più terso, sempre più libero da parti oscure, sempre più capace di illuminare. Maria di Magdala, corse da Simon Pietro. Giovanni e Pietro corsero alla tomba. Si corre quando qualcosa urge. La Chiesa corre spinta dalla carità. La Chiesa è veloce; noi dobbiamo essere veloci; veloci non nel produrre il male, ma nel produrre il bene. “Cercate le cose di lassù, non quelle della terra”, ci dice Paolo. Non è un invito ad astrarsi dalla storia, ma un invito a vivere nella storia, sulla terra, nella Luce dei nuovi giorni creati dalla risurrezione e aperti al giorno eterno del cielo. Le cose della terra appartengono al giorno del peccato, “le cose di lassù” appartengono al nuovo giorno, a quello illuminato dal Sole divino. Il mondo che ama il giorno del peccato vuole produrre luci, ma sono luci buie, gelide, ombre, che presentano il peccato come luce, mentre invece è tenebre. Corriamo dunque, fratelli e sorelle, certi di non inciampare, certi di vincere in virtù del Vincitore al quale vogliamo essere fedeli sino alla morte. La carità rende veloci, ma la carità non produce corse disordinate. Giovanni corse veloce, più di Pietro, ma si fermò per lasciare che Pietro entrasse per primo nella tomba. Non corse Giovanni per esplorare per primo, ma perché spinto dall’amore. “Vide”, ma non entrò; lasciò la precedenza a Pietro. Giovanni credette perché disposto ad ascoltare Pietro, che forse non disse in quel momento: “E’ risorto”, ma certo non fu affatto scettico. L’accoglienza dell’autorità di Pietro portò Giovanni a vedere e credere. Non c’è accoglienza della verità senza Pietro, non c’è pensiero teologico senza Pietro. Senza Pietro, senza i successori di Pietro, saremmo ben presto smarriti. Questo è il giorno che ha fatto il Signore; giorno nel quale si vive nella Luce; giorno che ci fa vedere l’uomo, la sua vocazione all’amore, la sua chiamata a Dio in Cristo nell’appartenenza alla Chiesa.
Laudetur Iesus Christe. Semper
QUESTO SITO È STATO CREATO TRAMITE