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SUA ECC.ZA REV.MA MONS. SALVATORE MICALEF

VESCOVO ORDINARIO

DOCUMENTO TEOLOGICO PASTORALE

Incarnatus Est
Et Verbum caro factum Est



“Salvatore, Vescovo Ordinario, Successore degli Apostoli, e, Servo di nostro Signore Gesù Cristo”.

PROEMIO

“Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all'angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». Le rispose l'angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E l'angelo partì da lei”. (Lc 1, 26 -38).
“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure, il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. (Gv. 1, 1- 18).


Breve Introduzione

Eminenze, Eccellenze Reverendissime;
Venerati Diaconi e Sacerdoti;
Carissimi Fratelli e Sorelle,
la grazia e la pace di Dio Nostro Padre e del Signore Nostro Gesù Cristo sia con tutti voi. In questo Documento Teologico Pastorale siamo chiamati a vivere e riflettere il messaggio fondamentale del Natale, quello che ci ricorda che il Verbo di Dio " venne ad abitare in mezzo a noi."; il Figlio di Dio, uno col Padre da sempre e per sempre, entra nel tempo e scende nel mondo, facendosi uomo tra gli uomini eccetto il peccato. La divisione posta da diversi studiosi individua nel prologo giovanneo quattro unità che corrispondono a quattro aspetti della riflessione teologica, individuabili come quattro cerchi concentrici, dal più grande al più piccolo: - vv. 1-5: l’esistenza del Logos prima che tutto fosse, la sua relazione con Dio, la sua funzione di mediazione nella creazione; - vv. 6-8: l’introduzione della figura di Giovanni Battista come «testimone della luce» e precursore della fede, colui che spiana la strada al Messia; - vv. 9-13: il tema della luce che illumina l’universo e l’umanità posta di fronte ad una scelta: accogliere o rifiutare la luce, che implica l’accoglienza e il rifiuto della vita; - vv. 14-18: l’incarnazione del Logos nel seno verginale di Maria è vita e luce per gli uomini, la testimonianza del Battista e la nascita del Battesimo e l’orientamento escatologico della missione del Figlio. - L’intera visione teologica, descritta con immagini dell’Antico Testamento serve a presentare il ruolo unico della mediazione del Logos (sapienza), che indica la personalità del Figlio, Verbo incarnato, similmente in 1Gv 1,1 e Ap 19,13 si indica con il termine Parola la persona del Figlio di Dio, l’unigenito. Il Logos è la persona divina che si è rivelato come fonte della vita eterna, ha rivestito la carne umana ed è stato toccato dalle mani degli Apostoli. È ancora precisato come la divinità del Verbo è eternamente rivolta verso Dio, il Padre (v. 18) e allo stesso tempo ne rivela la perfetta comunione di amore tra tutta la Santissima Trinità. Il Verbo è quindi la fonte della vita, inserito esplicitamente nella storia della salvezza, che supera e completa la legge mosaica. Il Verbo è la luce degli uomini (v. 4), fonte di rivelazione che illumina la notte del mondo e smaschera ogni ostilità e ogni ombra del maligno. Il centro del quadro descritto dal prologo è nel v. 14: «il verbo si è fatto carne». La testimonianza del Battista (1,7s) presuppone che il Verbo, ossia, la luce del mondo sia già presente come persona che vive, lavora tra la gente. Con l’affermazione di 1,14 si comprendono le espressioni enigmatiche circa la presenza della persona divina nella storia umana: il Logos è vita, perché manifesta e comunica la vita divina con la sua persona. Nei vv. 16-18 si accentua la rivelazione escatologica che non avviene per mezzo della legge mosaica, bensì per mezzo del Figlio unigenito Gesù Cristo nostro Signore. La legge fu data da Dio per mezzo di Mosè sul Monte Sinai all’uscita dall’Egitto, ma la grazia della verità è possibile unicamente nella mediazione salvifica di Gesù Cristo. La prima grande verità è data dalla scoperta che Gesù, Verbo incarnato è divenuto per noi «luogo dell’incontro con Dio», «presenza personale» di Dio sulla terra. Dall’istante dell’incarnazione del Figlio per ciascun uomo la vita acquista una prospettiva ermeneutica radicalmente diversa, che porta alla salvezza eterna. Anzitutto dobbiamo dire che l’incarnazione di Dio pone il fondamento storico di un’uguaglianza tra gli uomini che non potrà mai essere superata. In secondo luogo, dal fatto che Gesù è diventato autenticamente uomo dentro la storia, l’atteggiamento verso la vita e la morte è messo in questione in un modo radicale, in quanto la morte ha perso il suo contrassegno distruttivo in funzione della prospettiva della «vita nuova». L’incarnazione è la manifestazione concreta e credibile dell’amore di Dio in quanto rivela la centralità della carità divina e determina il nuovo modello antropologico che deve governare i rapporti umani sull’amore reciproco e sulla fondamentale uguaglianza e fraternità tra le genti. Esiste quindi una chiara indicazione del metodo spirituale e pastorale che nasce dal saper annunciare Dio partendo dalla condizione umana e dalla sua dimensione incarnata: «Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre i messaggi. È questa, del resto, l’esigenza estrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della rivelazione, infatti, è «l’Emmanuele il Dio con noi», quel Dio che chiama, che salva e che dà un senso logico e spirituale alla nostra vita; e la sua parola è destinata a irrompere come un uragano nella storia dell’umanità, offuscata dall’ombra nefasta del maligno, e, per rivelare ad ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla per il bene della sua anima immortale. La totalità espressa nell’evento dell’incarnazione apre una prospettiva antropologica nuova che implica come essere autentici cristiani, come realizzare essenzialmente il proprio progetto vocazionale nella pienezza del «dono di sé» corpo, mente e anima. Da questa consapevolezza si comprende come «vivere» un percorso di identità ed implica una scelta orientata alla definitività della propria esistenza. L’incarnazione del Figlio implica così una vocazione inscritta nell’essere creato: l’elevazione della natura umana alla dignità sublime di Dio. Così recita il noto testo conciliare: «Egli Gesù è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato dei nostri progenitori. Poiché in lui la natura umana è stata assunta in tutto e per tutto, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è resa anche per conto di noi innalzata a una dignità sublime, il Paradiso, tappa fondamentale della nostra esistenza. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (GS, n. 22). Leggiamo nel prologo di Giovanni un inno di bellezza insuperabile e di alta riflessione teologica, che racchiude in sé la verità che salva e descrive, anch'esso, l'itinerario di Dio verso l'uomo, la sua discesa nel tempo e nella Storia, la sua spoliazione, nel farsi carne e nell'assumere la fragilità umana, per fare dell'uomo un figlio di Dio. "In principio era il Verbo - recita il testo - e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini… venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi". È la sintesi stupenda del dono di Dio nel Figlio, Gesù di Nazareth, figlio di Maria Vergine che contempliamo nell'immagine tenera di un bimbo appena nato in un umile e poverissima stalla. A questo dono ineffabile, il cui valore non è misurabile con metri umani, l'uomo deve rispondere prima di tutto, con l'accoglienza totale e sincera di un cuore fedele e aperto all’Amore, e, di conseguenza, iniziando nell’umiltà un cammino verso Dio, sui passi del Cristo redentore; il Natale, infatti, non è solo la grotta col Bambino, ma ha già in sé il dramma della passione e morte del Figlio di Dio, che è venuto nel mondo per salvarci a prezzo della sua stessa vita, con il suo Sangue sparso, con quella obbedienza che lo ha condotto alla morte ignominiosa della croce. La vera celebrazione della Natività del Figlio di Dio non si esaurisce, dunque, in un solo giorno di festa, ma deve essere impegno costante e perpetuo che dà forma a tutta l'esistenza, un'esistenza fatta di conoscenza sempre più profonda del Mistero grande di Dio, che si rivela per mezzo di Cristo, come augura Paolo: "il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione, per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità...". Questa conoscenza, illuminata dalla fede, dalla preghiera, si trasforma in opere d'amore verso quel prossimo che Dio ci mette quotidianamente sul nostro cammino e col quale Gesù si è identificato quando ha detto: "Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero pellegrino e mi avete ospitato, nudo e mi avete coperto, ero infermo e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi; perché, in verità, tutto quello che avete fatto ad uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l'avete fatto a me" (Mt 25,35-40). - " Venite, benedetti dal Padre mio..." (Mt 25,34) è l'invito ufficiale che viene dal Bambino di Betlemme, un invito che è un progetto di vita, di un futuro migliore; un invito carico di luce, di amore e di speranza; quella stessa e identica speranza che rende la vita degna di esser vissuta, perché destinata alla piena comunione con la vita stessa di Dio, in Cristo Gesù, nostro fratello, nostro compagno, nostro salvatore. L’assunzione della natura umana di Cristo da parte della Persona del Verbo è opera delle tre Persone Divine, quindi, l’Incarnazione di Dio è la Personificazione del Figlio, non del Padre, né dello Spirito Santo, ma fu l’opera voluta e prestabilita da tutta la SS. Trinità. Proprio per questo nella Sacra Scrittura a volte la si attribuisce a Dio Padre (Eb 10, 5; Gal 4, 4), al Figlio stesso (Fil 2, 7) o allo Spirito Santo (Lc 1, 35; Mt 1, 20). Si sottolinea così che l’opera dell’Incarnazione fu un unico atto d’amore, comune alle tre Persone Divine. Sant’Agostino spiegava che «il fatto che Maria concepisse e desse alla luce è opera della Trinità, giacché le opere della Trinità sono inseparabili». Si tratta infatti di un’azione divina ad extra, di cui gli effetti si trovano fuori di Dio, nelle creature, pertanto sono considerate opera comune delle tre Persone, in quanto uno e unico è l’Essere divino, unico il potere infinito di Dio, che inizia così il progetto di salvezza di tutta l’umanità. Nell’incarnazione del Verbo Eterno, Dio Padre agisce con libertà; avrebbe potuto decidere che non ci fosse l’incarnazione del Verbo o che s’incarnasse un’altra delle Persone divine. Tuttavia, dire che Dio è infinitamente libero non significa che le sue decisioni siano arbitrarie o negare che l’amore sia il motivo del suo agire. Per questo noi teologi cerchiamo di conseguenza le ragioni di convenienza che si possono scorgere nelle decisioni divine, così come si manifestano nell’attuale economia della salvezza. Cerchiamo, quindi, soltanto di mettere in evidenza la meravigliosa sapienza e coerenza esistente in tutta l’opera di Dio, e non una eventuale necessità di Dio. Infatti, la Vergine Maria è stata predestinata da Dio stesso ad essere la Madre di Dio da tutta l’eternità così come l’Incarnazione del Verbo: «Nel mistero di Cristo ella è presente già “prima della creazione del mondo”, come colei che il Padre ‘ha scelto’ come Madre del suo Figlio nell’Incarnazione, ed insieme al Padre l’ha scelta il Figlio, affidandola eternamente allo Spirito di santità». La scelta divina rispetta la libertà di Maria, perché, «volle il Padre delle misericordie che l’accettazione di colei che era predestinata a essere la Madre precedesse l’Incarnazione, perché così, come la donna aveva contribuito a dare la morte, la donna contribuisse a dare la vita (LG 56; cfr. 61)» (Catechismo ,488). Perciò, fin dall’antichità, i Padri della Chiesa hanno identificato in Maria la Nuova Eva, colei che avrebbe generato il Figlio di Dio e attuare il piano salvifico dell’intera umanità. Per essere la Madre del Salvatore, Maria è stata arricchita da Dio di doni degni di una così grande carica. L’Arcangelo Gabriele, al momento dell’Annunciazione, la saluta come «piena di grazia» (Lc 1, 28). Prima che il Verbo si incarnasse nel grembo verginale di Maria era già, per la sua corrispondenza ai doni divini, piena di grazia. La grazia ricevuta da Maria la rende gradita a Dio e la prepara a essere la Madre del Salvatore del mondo. Totalmente invasa dalla grazia di Dio, poté dare il proprio libero assenso all’annunzio della sua vocazione, alla Parola di Dio che divenne Carne, Maria è diventata Madre di Gesù e, abbracciando con tutto l’animo e senza essere minimamente toccata da nessun peccato, si è offerta totalmente alla Persona e all’opera del Figlio suo, mettendosi al servizio del Mistero della Redenzione, sotto di lui e con lui, con la grazia di Dio onnipotente. I Padri della Tradizione orientale sono soliti chiamare la Madre di Dio “la Tutta Santa, la tutta pura” e la onorano come: Colei che fu immune da ogni macchia di peccato, prima della creazione degli Angeli e del mondo, dallo Spirito Santo plasmata e resa una nuova creatura. Maria, per la grazia di Dio, è rimasta pura da ogni peccato personale durante tutta la sua vita vissuta sulla terra. Maria è stata redenta sin dal suo concepimento: «È quanto afferma il dogma dell’Immacolata Concezione, proclamato da papa Pio IX nel 1854: “La beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale” (DS 2803). L’Immacolata Concezione manifesta l’amore gratuito di Dio, perché è stata un’iniziativa di Dio e non un merito di Maria ma di Cristo. Infatti, questi “splendori di una santità del tutto singolari” di cui Maria è “adornata fin dal primo istante della sua concezione”, le vengono interamente da Cristo: ella è “redenta in modo così eccelsa in vista dei meriti del Figlio suo. È la Madre di Dio, Maria ha concepito come uomo per opera dello Spirito Santo e che è diventato veramente suo Figlio secondo la carne, è il Figlio dell’Eterno Padre, quindi, la seconda Persona della Santissima Trinità. La Chiesa stessa ammette che Maria è veramente la Madre di Dio. Sicuramente non ha generato la divinità, ma il corpo umano del Verbo, al quale si unì immediatamente la sua anima razionale, creata da Dio come tutte le altre, dando così origine alla natura umana che in quello stesso istante fu assunta dal Verbo. Sin dai primi tempi la Chiesa confessa nel Credo e nella sua liturgia; Maria come la “sempre Vergine”. Questa fede della Chiesa si riflette nell’antichissima formula: «Vergine prima del parto, nel parto e dopo il parto», quindi la Santa Chiesa ha riconosciuto che: Gesù chiamato il Cristo, è stato concepito nel seno della Vergine Maria per la sola potenza dello Spirito Santo, quindi, senza l’intervento umano, ed ha affermato anche l’aspetto corporeo di tale avvenimento: Gesù è stato concepito “senza seme, ma soltanto ed esclusivamente per opera dello Spirito Santo” (Concilio Lateranense 649). Maria è considerata vergine anche durante parto, senza dolore, perché «lo partorì rimanendo intatta nella sua verginità, così, con intatta verginità, quindi, concepì Gesù Cristo, con una nascita mirabile». Infatti la nascita di Cristo “non ha diminuito la sua verginale integrità, ma l’ha consacrata a Dio per essere il mezzo della redenzione. I Padri della Chiesa, nelle loro spiegazioni dei Vangeli e nelle loro risposte alle diverse obiezioni, hanno sempre affermato questa realtà, che dimostra la sua totale disponibilità e la donazione assoluta al disegno salvifico di Dio. Lo riassumeva San Basilio quando scrisse che: «gli amanti di Cristo non vogliono sentir dire che la Madre di Dio, a un dato momento, non sia stata più vergine». L’immacolata Vergine Maria, totalmente immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria di Dio col suo corpo umano e con la sua anima, e dal Signore incoronata Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti e il vincitore del peccato e della morte. L’Assunzione della Santissima Vergine costituisce un’anticipazione della risurrezione di tutti cristiani. La regalità di Maria si fonda sulla sua maternità divina e sulla sua associazione all’opera della Redenzione. Il 1° novembre dell’Anno del Signore 1954 Papa Pio XII istituì la festa di Santa Maria Regina, per omaggiarla in terra, come Gesù l’ha omaggiata in cielo il giorno della sua dipartita. Per questo motivo la sua maternità divina comporta anche la sua cooperazione alla salvezza degli uomini: «Maria, figlia di Adamo, acconsentendo alla parola divina, è diventata Madre di Gesù e, abbracciando con tutto l’animo e senza alcun peccato, il progetto divino di salvezza, si è offerta totalmente come umilissima la serva del Signore alla persona e all’opera del Figlio suo, mettendosi al pieno servizio del mistero della Redenzione sotto di Lui e con Lui, con la grazia di Dio Onnipotente. Giustamente quindi i santi Padri della Chiesa ritengono senza nessuna perplessità che Maria non fu strumento passivo nelle mani di Dio, ma che cooperò in pieno alla salvezza dell’uomo con libera fede e obbedienza al suo Creatore. Questa cooperazione si manifesta perfettamente nella sua maternità spirituale. Maria, la nuova Eva per eccellenza, è la vera madre degli uomini nell’ordine della grazia, perché coopera attivamente alla nascita, alla vita della grazia e, allo sviluppo spirituale dei fedeli: Ha cooperato in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime che sono offuscate dal potere del male. Per questo è per noi la Madre nell’ordine della grazia. È anche mediatrice tra Dio e l’uomo, sempre subordinata all’unica intercessione di Cristo, che è cominciata con il “Fiat” dell’Annunciazione e perdura eternamente nel cielo, poiché, assunta, ella non ha deposto questa missione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci i doni della salvezza eterna. Per questo la Beata Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli di avvocata, ausiliatrice, soccorritrice, mediatrice. La Vergine è il modello della fede e della carità per la Chiesa. Per questo singolare motivo è riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro della Chiesa. San Paolo VI Papa, il 21 novembre 1964, proclamò solennemente Maria Madre della Chiesa, per sottolineare esplicitamente la funzione materna e protettrice che la Vergine esercita sul popolo cristiano in tutto il mondo, anche l’ha dove non è apprezzata e né riconosciuta. In base a tutto ciò che abbiamo esposto, si capisce che il culto della Chiesa per la Santissima Vergine Maria è parte integrante del culto cristiano. La Santissima Vergine viene dalla Chiesa giustamente onorata con culto dedicato a Lei. In verità dai tempi più antichi è venerata col titolo di “Madre di Dio”, sotto il cui presidio i fedeli pregandola si rifugiano in tutti i loro pericoli e le loro necessità che la vita quotidiana presenta giorno dopo giorno. Questo culto, sebbene del tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di adorazione, prestato al Verbo incarnato come al Padre e allo Spirito Santo, e particolarmente lo promuove. Il culto verso Maria Santissima trova la sua espressione nelle feste liturgiche e nella preghiera mariana come il Santo Rosario. Ora ritorniamo per un momento indietro nell’Antico Testamento dove possiamo riscontrare che, dopo il peccato dei nostri progenitori Adamo ed Eva, per colpa del serpente tentatore, Dio non abbandonò a sé stesso l’uomo ma gli promise un Salvatore e un Redentore, che annienterà definitivamente il potere del diavolo, della morte e del peccato. Quindi, dopo la consumazione del peccato originale e la promessa del Redentore, Dio stesso prende ancora una volta l’iniziativa, stabilendo con gli uomini un’Alleanza: con Noè dopo il diluvio (Gn 9-10) e in seguito con Abramo (Gn 15-17), al quale promise una grande discendenza come le stelle del cielo, della quale avrebbe fatto un grande popolo, gli ebrei, concedendogli una nuova terra e nel quale sarebbero state benedette tutte le nazioni della terra. Quest’Alleanza si rinnovò poi con Isacco (Gn 26, 2-5) e con Giacobbe (Gn 28, 12-15; 35, 9-12), è quest’Alleanza raggiunge la sua espressione più completa con Mosè (Es 6, 2-8; 19-34). Un momento importante nella storia delle relazioni fra Dio e Israele fu la profezia di Natan (2 Sam 7, 7-15), che annuncia che il Messia verrà dalla stirpe di Davide e regnerà su tutti i popoli, e non solo su Israele. Del Messia si parlerà successivamente in altri testi profetici, è che la sua nascita avrà luogo a Betlemme (Mic 5, 1), che apparterrà alla stirpe di Davide (Is 11, 1; Ger 23, 5), che gli sarà imposto il nome di «Emmanuele», ossia, Dio con noi (Is 7, 14), che sarà chiamato «Dio potente, Padre per sempre, Principe della Pace» (Is 9, 5), ecc. Oltre a questi testi che descrivono il Messia come Re e discendente di Davide, ve ne sono altri che raccontano, in modo profetico, la missione redentrice del Messia, chiamandolo Servo di Jahvéh, servo dei dolori, il quale assumerà nel suo corpo la riconciliazione e la pace (Ef 2, 14-18): Is 42, 1-7; 49, 1-9; 50, 4-9; 52, 13-15; 53, 10-12. In un tale contesto è importante il passo di (Dn 7, 13-14) sul Figlio dell’uomo, che misteriosamente, attraverso l’umiltà e l’abbassamento, supera la condizione umana e restaura il regno messianico nella sua fase definitiva. Le principali figure del Redentore nell’Antico Testamento sono l’innocente Abele, il Sommo Sacerdote Melchidesech, il sacrificio di Isacco, per mano di suo padre Abramo, Giuseppe venduto dai fratelli, l’agnello pasquale nella notte dell’Esodo, il serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto e il profeta Giona, rimasto tre giorni all’interno del ventre della balena. Sono molti i nomi e i titoli attribuiti a Cristo nel corso dei secoli dai teologi e dai vari autori spirituali. Alcuni sono presi dall’Antico Testamento; altri dal Nuovo. Alcuni sono utilizzati o accettati da Gesù stesso; altri gli sono stati applicati dalla Chiesa nel corso dei secoli. Gesù, che in ebraico significa «Dio salva»: Al momento dell’Annunciazione, l’Angelo Gabriele rivela a Maria che il suo nome proprio sarà Gesù, nome che esprime ad un tempo la sua identità e la sua missione, vale a dire, Egli è il Figlio di Dio fatto uomo per salvare il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1, 21). Il nome di Gesù significa che è Dio stesso presente nella persona del Figlio suo (At 5, 41; 3 Gv 7), fatto uomo per l’universale e definitiva Redenzione dell’uomo dai peccati. È il nome divino che reca la salvezza (Gv 3, 18; At 2, 21), e può essere invocato da tutti perché, mediante l’Incarnazione, Egli si è unito a tutti gli uomini. Cristo viene dalla traduzione greca del termine ebraico «Messia», che significa «unto del Signore». Diventa il nome proprio di Gesù, perché, Egli compie perfettamente la missione divina da esso portata avanti con determinazione. Infatti, in Israele erano unti nel nome di Dio coloro che erano a lui consacrati per una missione che Egli aveva loro affidato. Questo era il caso dei sacerdoti, dei re e, eccezionalmente, dei profeti. Questo doveva essere per eccellenza il caso del Messia che Dio avrebbe inviato per instaurare definitivamente il suo Regno. Gesù ha realizzato la speranza messianica di Israele nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re. Infatti, Gesù ha accettato il titolo di Messia cui aveva diritto Gv 4, 25-26; 11, 27), ma non senza riserve, perché una parte dei suoi contemporanei lo intendevano secondo una concezione umana e non di provenienza divina (Mt 22, 41-46), ma essenzialmente politica Gv 6, 15; Lc 24, 21). Pertanto, Gesù Cristo è l’Unigenito Figlio di Dio. La filiazione di Gesù rispetto a suo Padre non è una filiazione adottiva come la nostra, ma una filiazione divina naturale, ossia, la relazione unica ed eterna di Gesù Cristo con Dio suo Padre: egli è il Figlio unigenito del Padre (Gv 1, 14.18; 3, 16.18) ed è presente prima della creazione degli Angeli e di tutto ciò che sussiste. Per essere veri ed autentici cristiani si deve credere ciecamente che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, e non ci sono scuse o dubbi che possono distrarci da questa affermazione. I Vangeli riferiscono di due momenti solenni ed importanti per la nostra Fede: il battesimo e la trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor, la voce del Padre che lo indica come il suo “Figlio prediletto” (Mt 3, 17; 17, 5). Gesù, a questo punto, presenta se stesso come “il Figlio Unigenito di Dio, della stessa sostanza del Padre” (Gv 3, 16) e con questo titolo afferma la sua preesistenza eterna. Un altro nome che appartiene a Gesù è: Signore. Nella traduzione greca dei Libri dell’Antico Testamento, il nome ineffabile sotto il quale Dio si è rivelato a Mosè (Es 3, 14), YHWH, è reso con “Kyrios” “Signore”. Da allora Signore diventa il nome abituale con il quale viene indicato il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Il Nuovo Testamento utilizza il titolo di “Signore” per il Padre, ma, ed è questa la novità, perché, anche per Gesù, è riconosciuto così per il semplice motivo che, egli stesso è Dio (1 Cor 2, 8). Infatti, attribuendo a Gesù il titolo divino di Signore, le prime confessioni di fede della Chiesa affermano, fin dall’inizio (At 2, 34-36), che la potenza, l’onore e la gloria dovuti a Dio Padre convengono anche al Figlio Gesù Cristo (Rm 9, 5; Tt 2, 13; Ap 5, 13), per il semplice fatto che, Egli è di “natura divina” (Fil 2, 6) e che il Padre ha manifestato questa signoria di Gesù risuscitandolo dai morti ed esaltandolo nella sua gloria, come rivela: (Rm 10, 9; 1 Cor 12, 3; Fil 2, 9-11). Perciò, Cristo Gesù è l’unico Mediatore perfetto tra Dio e noi uomini peccatori. È Maestro, Sacerdote e Re di tutte le cose, quelle visibili e quelle invisibili. È vero Dio e vero uomo, nella unità della sua Persona divina; per questo motivo è l’unico Conciliatore tra Dio e gli uomini. L’espressione più profonda del Nuovo Testamento circa l’intervento di Cristo si trova nella prima lettera a Timoteo: «Uno solo è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2, 5-6). Qui sono presentate la persona del Mediatore e l’azione salvifica del Mediatore. Nella lettera agli Ebrei, Cristo è presentato come il Signore di una Nuova e Eterna Alleanza (Eb 8, 6; 9, 15; 12, 24). Gesù Cristo è perfetto Dio e perfetto uomo, ma è intermediario mediante la propria umanità. I testi del Nuovo Testamento presentano Gesù Cristo come profeta e rivelatore, come Sommo Sacerdote e Signore di tutta la creazione. Non si tratta di tre ministeri diversi, ma di tre aspetti diversi della funzione salvifica dell’unico Salvatore del mondo. È il profeta annunciato nel Libro del Deuteronomio (18, 18). La gente considerava Gesù non solo un profeta ma Colui che viene nel nome del Signore (Mt 16, 14; Mc 6, 14-16; Lc 24, 19). Lo stesso inizio della lettera agli Ebrei appare paradigmatico a tal proposito. Ma Cristo è più grande di un profeta: Egli è il Maestro, vale a dire, colui che insegna con l’autorità che gli è propria, con un’autorità sconosciuta fino ad allora, che lasciava sorpresi quelli che lo ascoltavano, infatti, aveva potere sui demoni che gli ubbidivano senza esitazione. Il carattere supremo degli insegnamenti di Gesù si fonda nel fatto che è Dio e nello stesso medesimo tempo anche un uomo come tutti. Gesù non solo insegna la verità, ma Egli stesso è la Verità Suprema resa visibile nella carne. Cristo, Verbo sempre Eterno del Padre, «è la Parola unica, perfetta e definitiva di Dio, il quale in Lui non ci sarà altra parola che quella. L’insegnamento donatoci gradualmente da Cristo è definitivo, nel senso che, con esso, la Rivelazione di Dio agli uomini nella storia ha avuto il suo ultimo compimento. Cristo è sacerdote. Nella lettera agli Ebrei, che ha come tema centrale il Sacerdozio di Cristo, è presentato come Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza, per sempre alla maniera di Melchidesech (Eb 5, 10; 6, 20), santo, innocente, senza macchia di peccato (Eb 7, 26), il quale, “con un’unica oblazione: ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati (Eb 10, 14), con un unico sacrificio, quello della sua Croce. Come il sacrificio di Cristo la sua morte sulla Croce è unico per l’unità esistente fra il sacerdote e la vittima di cui assume un valore infinito, così come il suo sacerdozio è unico. Egli è l’unica vittima per riparare tutti i peccati degli uomini. I sacrifici che venivano celebrati nell’Antico Testamento erano figura di quello di Cristo e prendevano valore proprio in quanto ordinati a quello che Cristo subirà alla fine della sua via terrena. Il sacerdozio di Cristo, è eterno, è pertanto, partecipato dal sacerdozio ministeriale e dal sacerdozio comune di tutti i fedeli laici, che né si sommano né succedono a quello di Cristo è Re di tutto ciò che sussiste. Lo è non solo in quanto Vero Dio, ma anche in quanto Vero Uomo. La sua sovranità è un aspetto fondamentale del suo intervento salvifico. Cristo salva perché ha il potere effettivo per poterlo fare. La fede della Chiesa afferma la regalità di Gesù e professa nel Credo che «il suo regno non avrà fine», ripetendo così ciò che l’Arcangelo Gabriele ha confermato a Maria durante l’Annunciazione (Lc 1, 32-33). La dignità regale di Gesù Cristo era già stata annunciata nell’Antico Testamento (Sal 2, 6; Is 7, 6; 11.1-9; Dn 7, 14). Egli, però, non ha parlato molto della propria regalità, perché fra gli israeliti del suo tempo era molto diffuso un concetto esclusivamente materiale e terreno del Regno messianico. Lo riconobbe in un momento particolarmente solenne quando, rispondendo a una domanda di Ponzio Pilato, rispose: «Tu lo dici; io sono Re» (Gv 18, 37), ma aggiunse, che il suo Regno non è di questo mondo, perché si riferiva all’Eternità. La regalità di Cristo non è metaforica, ma reale e comporta il potere di legiferare e di giudicare, si fonda sul fatto che è il Verbo incarnato è il nostro Redentore. Il suo regno è totalmente spirituale ed eterno, di conseguenza, non può avere una fine. Questo mondo in cui noi viviamo ha una fine, perché non è eterno, ma soltanto di passaggio, non è qui che dovremo vivere per sempre. Cristo istruisce la sua regalità attirando a sé tutti gli uomini mediante la sua Passione, Morte e Risurrezione (Gv 12, 32), dimostrando al mondo che lo ha condannato che Lui e Eterno. Re e Signore dell’Universo, si è fatto il servo di tutti, non essendo venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti ( Mt 20, 28). In conclusione, di questa breve e sostanziale introduzione devo aggiungere che: tutta la vita di Cristo è un mistero di Redenzione, che porta noi uomini in un traguardo finale molto importante, il Paradiso, l’incontro definitivo con la Santissima Trinità, Maria Santissima e tutti i Santi e Angeli, che contemplano eternamente il Volto di Dio. Per tutto ciò che si riferisce alla vita di Cristo, lo troviamo impresso nel Simbolo della fede dove sono impressi tutti i misteri dell’Incarnazione, concezione, nascita e Pasqua, quindi, passione, crocifissione, morte, sepoltura, discesa agli inferi, risurrezione e ascensione al cielo. Non dice nulla, in modo esplicito, dei misteri della vita nascosta e della vita pubblica di Gesù, ma gli articoli della fede concernenti l’Incarnazione e la Pasqua illuminano tutta la vita terrena di Cristo, che ci confermano in pieno che è Vero Dio e Vero Uomo. Tutta la sua vita è redentrice e qualunque suo atto umano che ha svolto per la redenzione dell’umanità possiede un valore trascendente di salvezza. Anche negli atti più semplici e apparentemente meno importanti di Gesù c’è un efficace esercizio della sua intercessione fra Dio e gli uomini, perché sono sempre azioni svolte e concretizzate dal Verbo incarnato. Giunge la pienezza dei tempi e per compiere questa missione nasce un bambino a Betlemme. È il Redentore del mondo; e ancor prima di parlare ama con le opere. Non ha nessuna formula magica, perché è ha conoscenza che la salvezza che offre deve passare attraverso il cuore dell’uomo, per poterla attuare, devi dare il tuo consenso. E affinché noi uomini peccatori ci innamorassimo di Lui e imparassimo ad accoglierlo nelle nostre braccia, le sue prime azioni sono il sorriso e il pianto di un bambino indifeso deposto in una semplice mangiatoia costruita da Giuseppe, il sonno inerme di un Dio incarnato per la nostra salvezza eterna. Gli anni della vita nascosta che ha vissuto insieme con Giuseppe che gli ha insegnato l’umile arte del falegname e Maria la sua Vergine Madre, non sono una semplice preparazione al suo ministero pubblico, ma autentici atti redentivi, orientati verso la consumazione del Mistero Pasquale. Ha una grande rilevanza teologica il fatto che per la maggior parte della sua vita Gesù abbia condiviso la condizione dell’immensa maggioranza degli uomini: la vita quotidiana di famiglia e di lavoro a Nazaret. Così Nazaret costituisce una lezione di vita familiare, una lezione di lavoro. Gesù compie la nostra redenzione durante tutti gli anni passati nel nascondimento, dando così un senso divino nella storia della salvezza, al lavoro quotidiano del cristiano e di milioni di uomini di buona volontà: Gesù, cresce e vive come uno di noi, ci rivela che l’esistenza umana, con le sue situazioni più semplici e più comuni, ha un senso divino.

CAPITOLO I
Significato Teologico – Spirituale: In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio

Il prologo del Vangelo di Giovanni (Gv 1,1-18), è uno dei testi più ricchi e profondi del Nuovo Testamento, mette in dettaglio l’Incarnazione del Verbo: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Per questo motivo lo leggiamo nella Messa del giorno di Natale. Esso anticipa i temi principali descritti nel Vangelo: Cristo è la vita e la luce degli uomini; coloro che lo accolgono diventano figli di Dio, mediante il Sacramento del Battesimo. Il prologo è la chiave di lettura di tutto il racconto evangelico: il Figlio unigenito, che nell’eternità è accanto al Padre, ha vissuto una storia umana come Gesù di Nazaret, figlio di Maria e Giuseppe il falegname. Solamente chi riconosce la realtà più profonda, intima e nascosta di Gesù è in grado di comprendere la sua vicenda terrena, e capirne il vero significato. Il protagonista per eccellenza del prologo è il Verbo in greco Lógos; letteralmente tradotta con il termine, “parola”, un essere divino che si deve identificare con la Sapienza (Prv 8,23ss; Sap 7,22ss; Sir 24): immagine perfetta di Dio Padre, nella quale risplende la sua gloria eterna (Col 1,15; Eb 1,3). È il Figlio unigenito» del Padre (v. 14), che da tutta l’eternità «in principio» è presso Dio ed è Dio. Comincia a profilarsi il mistero della Divina Trinità. Un giorno, parlando dello Spirito Santo, Gesù dirà che anch’esso procede dal Padre (15,27). Prima ancora che nascesse il tempo, i secoli e la storia, il Verbo-Figlio-Sapienza di Dio è lo strumento della futura creazione: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (v. 3); «il mondo è stato fatto per mezzo di lui» (v. 10). Dio Padre ha creato il mondo con la sua parola (Gn 1), e questa Parola Vivente è il Verbo eterno. Quando creò il cielo e la terra dice di sé la Sapienza; «io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Prv 8,30s). Nel Verbo di Dio «era e continua tuttora ad essere la vita». Che cosa voleva intendere l’evangelista con la parola “vita”? Appare chiaramente dalle parole pronunciate da Gesù nel c. 6: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. (Gv 6,57). Nell’AT il Dio Padre diceva al suo popolo per mezzo di Mosè e dei Profeti che si susseguirono: «Ecco, io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male... la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce, ai suoi Comandamenti e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita» (Dt 30,15-20). La parola di Dio, la sua Sapienza, che diventa “carne” in Gesù di Nazaret, che è “vita” in quanto dà la vita, quella divina ed eterna, a ogni essere umano che l’accoglie e ne fa il principio della sua esistenza e delle sue Leggi. «E la vita era la luce degli uomini»: luce che guida nel cammino dell’esistenza e della salvezza senza fine. Da sempre nel mondo, più precisamente nell’umanità, tra la luce e tenebre c’è un forte contrasto di dura lotta: tuttavia la luce continua a splendere nelle fitte tenebre del peccato e della morte, pertanto, di conseguenza, le tenebre, paragonabili con la falsità e il male, cercano in tutti i modi di sopraffare la luce del Verbo Divino, «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (v. 9). L’evangelista Giovanni suggerisce che questa luce non illuminava solamente il popolo della prima alleanza, al quale Dio si rivelò per mezzo dei Patriarchi, di Mosè e dei Profeti. Il Verbo Divino illuminava e illumina ogni uomo, è sempre presente nella razionalità e nelle culture di ogni popolo sparso sulla terra. Nonostante gli errori che il male semina nel cuore degli uomini, «le tenebre non hanno vinto» o soffocato del tutto la luce del Verbo (v. 5).
È venuto nel mondo... tra i suoi...per testimoniare la Verità e la Sapienza di Dio.
La «Luce vera» è il Verbo di Dio, che come abbiamo anticipato in precedenza, viene nel mondo per illuminare tutta l’umanità. Nella sua andatura, il testo del prologo appare ripetitivo e di non facile lettura, ma vi distinguiamo chiaramente due affermazioni importanti e fondamentali. Prima: pur venendo nel mondo, storicamente il Verbo venne fra i suoi, facendosi Carne e abitando in mezzo a noi, vale a dire, tra quelli che gli appartenevano in modo del tutto speciale, il popolo di Israele. Seconda: «il mondo non lo ha riconosciuto» e «i suoi non lo hanno accolto». È abbastanza evidente che qui l’evangelista anticipa il bilancio dell’intera missione di Gesù (12,37-41). Notiamo la progressione: «la luce splende nelle tenebre»; «veniva nel mondo la luce vera»; «venne fra i suoi»; «si fece carne» Tutto ciò che si ribadisce in modo chiaro che il Verbo di Dio, che è luce e vita, tende all’evento dell’Incarnazione nel grembo verginale di Maria, riguarda la Seconda Persona della SS.ma Trinità, Gesù nostro Signore.
Non lo hanno accolto, lo hanno catturato, torturato e condannato alla morte di Croce.
Precisamente in riferimento a Gesù e alla sua missione, l’evangelista mette subito a fuoco la duplice risposta che la sua venuta ha ricevuto e, tuttora riceve da parte degli uomini. Molti, a cominciare dai suoi, «non lo hanno accolto». Questa amara constatazione ritorna più volte e in diverse forme nel seguito del Vangelo, con un crescendo:
  • domanda provocatoria: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?» (2,18);
  • atteggiamento scettico: «Neppure i suoi fratelli credevano in lui» (7,5);
  • obiezione critica: «costui sappiamo di dov’è e chi è, è figlio di Maria e Giuseppe il Falegname e vivono a Nazareth; il Cristo, invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia» (7,27);
  • contestazione (vedi il lungo dialogo dei cc. 7-8);
  • giudizio negativo e dura opposizione: «Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore!»: «un samaritano e un demonio»; 10,19: «è indemoniato ed è fuori di sé»;
  • l’aggressione fisica: «Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui»; di nuovo gli viene imputata l’accusa di bestemmia: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia, perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (10,33);
  • la decisione di eliminarlo: «Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio. Caifa, che era sommo sacerdote, disse: “è conveniente che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera” (1,50). A questo punto si mette in moto la macchina del tradimento per mezzo di un capo espiatorio, Giuda Iscariota, del processo burla, fino alla condanna capitale, la Croce.
  • Merita ancora rilevare la reazione scettica di Pilato, che ha valore emblematico: quando Gesù dichiara di essere venuto nel mondo «per dare testimonianza alla verità», il governatore romano replica: «Che cos’è la verità?» (18,37s).
Questa carrellata di informazioni e dettagli ci fa comprendere che il rifiuto di Gesù da parte delle guide religiose del suo popolo è un rifiuto “teologico”, nel senso preciso del termine: colui che viene respinto e condannato non è solamente un profeta, la cui predicazione infastidisce i leaders della nazione; è il Verbo incarnato, che pretende di venire da Dio e di essere Dio stesso fatto uomo. Si può osservare che il dato evangelico riceve conferma dagli scritti dei primi apologeti, per es. il Contra Celsum di Origene, dove il filosofo pagano riprende pari le obiezioni e le accuse dei Giudei. Se poi facciamo un salto fino al secolo dei lumi e al razionalismo moderno, il problema rimane identico: non si vuole accettare la divinità di Cristo. Tutt’al più lo si accetta come un maestro di saggezza, un tragico eroe religioso, il personaggio che più di ogni altro ha inciso nella storia e nella cultura dell’Occidente, colui che senza sua intenzione è diventato oggetto di culto in una delle religioni oggi più diffuse nel mondo.
A quanti lo hanno accolto... ha dato potere di diventare figli di Dio.
In questo particolare il rovescio della medaglia è positivo: «quanti lo hanno accolto», «quelli che credono nel suo nome». Accogliere vuol dire credere. La Fede è tra i temi principali del Vangelo di Giovanni, che afferma di aver scritto «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate la vita nel suo nome». «Credere nel suo nome» equivale a riconoscere la sua vera identità di Figlio di Dio e affidarsi a lui in anima e corpo come unico salvatore dell’intera umanità. Vi do un esempio: a Marta Gesù dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno»; poi chiede: «Credi tu a tutto questo?». Marta risponde: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (11,25-27). Nel prologo l’evangelista riassume il tema della salvezza mediante la Fede con queste parole: «A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (vv. 12-13). Si tratta di una nuova rinascita, grazie alla quale si diventa figli di Dio e coeredi di Cristo. L’idea non è esclusiva di Giovanni, perché si trova anche nella Prima lettera di Pietro e in quella di Giacomo (1 Pt 1,1.23; Gc 1,18). Secondo l’insegnamento di Paolo i credenti sono diventati figli di Dio (Gal 1,26; 4,5; Rm 8,14s) e sono considerati «nuove creature» (Gal 6,15; 2 Cor 5,17): si ha dunque l’equivalente della dottrina giovannea. Il tema ritorna nel dialogo con Nicodemo all’interno dell’Orto degli Ulivi. Gesù afferma che per entrare nel regno di Dio è necessario «nascere dall’alto» o «di nuovo» e, spiega al maestro fariseo che si tratta di nascere «da acqua e Spirito Santo» (Gv 3,3.5). Dunque, la vita nuova, per la quale siamo chiamati ad essere figli di Dio, è opera dello Spirito Santo, che sarà donato da Cristo Risorto durante la Pentecoste (7,39).
Essere figli di Dio e non figli del mondo.
La Prima lettera di Giovanni riprende il tema e lo sviluppa in modo più concreto e dettagliato. Cristo è «il Verbo della vita» (1 Gv 1,1); il suo sangue «ci purifica da ogni peccato» (1,7); Egli è apparso «con il mandato di togliere i peccati dal mondo» (3,5). Ma tutto questo non è senza un riflesso nell’esistenza dei credenti: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica sé stesso, come egli è puro» (3,2s). Continuando: «Chiunque è stato generato da Dio non commette peccato, perché un germe divino rimane in lui, e non può peccare perché è stato generato da Dio» (3,9). Più avanti: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» (4,7). «Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (5,1.4). In altri termini: essere figli di Dio non è un semplice titolo onorifico, ma è una realtà ora nascosta, che un giorno si manifesterà pienamente quando saremo nella Gloria del Paradiso. In secondo luogo, la nuova rinascita introduce nel credente un dinamismo che si manifesta in due direzioni: purificarsi dal peccato e «amare i fratelli».
Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Centro determinante del Prologo è l’affermazione: «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (v. 14). Dopo quanto sappiamo circa il Logos Divino, restiamo stupiti per l’audacia e la paradossalità del “Credo” che anche noi cristiani credenti professiamo ogni domenica e festa prima della Liturgia eucaristica. Il Verbo-Sapienza-Figlio Eterno di Dio, Dio egli stesso in tutto e per tutto, è diventato “carne”, ossia ha acquisito l’umanità fragile e limitata, contingente, storicamente e culturalmente condizionata da una mentalità ebraica considerata di dura cervice. Non si tratta unicamente di “natura” umana, ipostaticamente unita alla divinità: si tratta anche di giudaicità, di appartenenza a un ambiente e a un’epoca, di corporeità e mortalità, di affettività e socialità. La Lettera agli Ebrei lo dice con estrema chiarezza: «eccetto il peccato, si è fatto in tutto simile ai fratelli» (Eb 2,17; 4,15). «… e venne ad abitare in mezzo a noi». Si può speculare se nel verbo gr. eskénosen c’è un’eco del verbo ebraico (e aram.) shakan, da cui la tenda della presenza di Dio in mezzo al suo popolo nel deserto (mishkan) e la sua presenza salvifica nel tempio di Gerusalemme (shekinà). Possiamo limitarci al senso ovvio: ha preso dimora, ha dimorato, è vissuto, oppure, come si legge negli Atti degli Apostoli, «è entrato e uscito in mezzo a noi» (At 1,21), «passò beneficando e risanando tutti coloro che erano malati, indemoniati, rendendoli figli di Dio» (At 10,38)... Si tratta del Gesù della storia, quello che raggiungiamo attraverso i Vangeli e la cui traccia non è scomparsa, ma è ancora presente in mezzo a noi dopo 2000 anni. L’“incarnazione” del Verbo non va limitata al momento della sua nascita «secondo la carne» (Rm 1,3; Gal 4,4): ma abbraccia la totalità della sua esistenza terrena che, in un certo senso, si estende nel tempo e nello spazio, portando compimento che Cristo Risorto è «il vivente» (Lc 24,5), e che è presente oggi nel mondo perché; la Chiesa è il suo corpo e noi siamo le sue membra vitali (1 Cor 12,12ss). Un altro elemento sottolineato negli scritti di Sant’Agostino in favore del carattere autenticamente umano della carne di Cristo e, quindi, del suo aver assunto una carne del tutto simile a quella di noi uomini mortali lo troviamo espresso, stando sempre ai testi citati, nel fatto che pure Lui, alla stregua di ogni uomo, tante mani, a partire dai suoi discepoli, lo hanno potuto toccare e mostrare così che, la carne trasmessagli dalla Vergine Maria nell’attimo dell’Incarnazione e successivamente, al momento della nascita è carne vera, assolutamente reale. Sant’Agostino si sofferma poi su un’ulteriore riflessione, tratta dall’istituto matrimoniale e ritenuta da lui molto idonea per segnalare come: nell’utero di Maria la carne da Lei data al Verbo di Dio si sia unita a quest’ultimo non in modo superficiale né, tanto meno, finto, bensì a mo’ di sposa a sposo, vale a dire, nel contesto di due realtà finalizzate, di loro natura, a trasformarsi, come dichiara la Sacra Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento, in una sola entità carnale che è, a un tempo, realtà invisibile e realtà visibile, realtà divina e realtà umana, realtà celeste e realtà terrena, realtà trascendente e realtà sottoposta a tutte le vicissitudini proprie del vivere in questo mondo. E che si tratti di vera entità carnale, Sant’Agostino lo dichiara, senza mezzi termini, piuttosto di frequente nei suoi scritti. In genere, nei casi in cui attribuisce alla persona di Cristo l’assunzione di una carne del tutto identica, sul piano fisico, a quella di ogni altro essere umano e la ritiene, con l’anima razionale, uno dei due elementi costitutivi dell’uomo in quanto tale, anche se, come diremo in seguito, in Lui l’essere umano coesiste con il suo essere di Verbo Divino e di seconda Persona della Santissima Trinità. Al riguardo, ci son altri documenti in cui questa sua presa di posizione è esposta in modo forte e deciso unitamente ad alcuni richiami dai quali si apprende come sia stato proprio l’aver assunto, da parte di Cristo, un reale corpo umano a imprimere valore redentivo tanto alle sue sofferenze che alla sua morte in croce e alla sua successiva risurrezione.
Abbiamo contemplato la sua Gloria
Nella “carne” del Verbo continua l’evangelista, «noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio Unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità». Anche qui si coglie un’eco dell’AT: la «gloria, doxa» (eb. kabôd) di Dio risplende negli eventi salvifici (Es 16,7 ecc.) ed è come una luce che manifesta la sua presenza (Es 24,16), prima nel santuario che fu eretto nel deserto durante il lungo Esodo dall’Egitto alla Terra Promessa (Es 40,34s), poi nel tempio di Gerusalemme edificato per volere di Dio da Re Salomone figlio di Re Davide (1 Re 8,10s). Per il quarto evangelista la gloria del Verbo incarnato si manifesta in particolare nei “segni” (2,11), che a loro volta simboleggiano la sua attività salvifica come Risorto (1,50s; 13,31s). A nome degli altri discepoli, Giovanni qui afferma: «abbiamo contemplato la sua gloria»; che nella Prima Lettera dice in modo equivalente: «abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato il Verbo della vita» (1 Gv 1,1). La gloria di Cristo è quella «del Figlio Unigenito del Padre, pieno di Grazia, di Misericordia e di Verità». L’espressione «grazia e verità, kháris kaì alétheia» viene da Es 34,6. Si tratta dell’amore misericordioso (eb. hesed) e della fedeltà (emet) di Dio nei riguardi del popolo di Israele. Il Verbo incarnato è la manifestazione più alta, piena e definitiva dell’amore del Padre. Lo dirà più avanti l’evangelista: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16s). Il tema è ripreso nella Prima lettera di Giovanni, dopo aver affermato la più alta ed eccelsa verità che, «Dio è amore», quell’amore che dovrebbe regnare in ogni cuore di ogni singolo uomo, perciò, l’apostolo chiarisce: «In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi fin dalla nostra creazione e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,9s). Anche san Paolo riconduce la missione salvifica di Cristo all’amore del Padre per noi uomini, miseri peccatori (Rm 58; 8,32).
Grazia su grazia, ci ha salvato dalla dannazione eterna.
Dopo la seconda digressione, viene ripreso il tema della kháris: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia» (v. 16), una “corrente ininterrotta di grazia” (Segalla) che dalla pienezza del Verbo incarnato scorre verso di «noi peccatori» i credenti. L’evangelista istituisce un confronto tra Antico e il Nuovo Testamento: «la Legge fu data da Dio Padre per mezzo di Mosè, sul Monte Sinai, la grazia santificante e la verità tutta intera vennero per mezzo di Gesù Cristo» (v. 17). Allo stesso modo san Paolo contrappone la Grazia alla Legge, la «vetustà della lettera» alla «novità dello Spirito Santo» (Rm 7,6). Ciò che il prologo afferma in modo sintetico, Gesù lo spiega più attentamente e apertamente nel corpo del Vangelo; per esempio; nell’ultimo giorno della festa delle Capanne, quando grida: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come afferma la Sacra Scrittura: “Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”». L’evangelista commenta: «Questo egli disse dello Spirito Santo che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito >Santo, perché Gesù non era ancora stato glorificato», egli viene glorificato dal Padre mediante la sua dolorosa Passione, Morte e Resurrezione (7,38-39). L’acqua e il sangue che escono dal costato di Gesù crocifisso (19,34) simboleggiano appunto il fiume di grazia che scaturisce da lui, ed infonde la sua Divina Misericordia al mondo intero. Questo è un Vangelo immenso, che ci vieta ad avere pensieri di poco conto. “In principio era il Verbo, e il Verbo era Dio. E il Verbo si fece carne. E ha dato a ciascuno il potere di diventare figli di Dio”. Colui che nella sua infinita Misericordia ha riempito il cielo con miliardi di galassie, l’inventore dell’universo, nella pienezza del tempo si fa piccolo e ricomincia la sua vita da uomo dalla Città di Betlemme. È Colui che ha separato la luce dalle tenebre, il firmamento dalla terra, si fa inchiodare su di una croce per espiare tutti i peccati di noi uomini infedeli. A Betlemme non c’è nessuna illusione, nessun raggiro, nessuna menzogna, ma è evidente l’inizio della redenzione. Lo garantiscono una mangiatoia e una croce. Dio è là dove la ragione si scandalizza, dove la natura si ribella, dove Dio mette al primo posto la salvezza dell’uomo Ma il miracolo grande è che Dio non plasma più l’uomo nuovo con polvere del suolo, come in principio, nel Giardino dell’Eden, come fece per Adamo e Eva, ma lui stesso si fa bambino per nascere a Betlemme, come fu scritto nel Profeta di Isaia. E se io dovrò piangere, anche lui imparerà a piangere. E se io devo morire, anche lui ha gustato l’orrore della morte. Solo un Dio poteva imboccare queste strade. E solo gli umili gli credono, lieti che Dio sia così libero e così stupefacente, da preferire ciò che l’uomo emargina. Il prodigio più grande è che Dio ama ciò che è umile e semplice. Dio nell’umiltà: ecco la parola rivoluzionaria, l’appassionata parola che determina il senso autentico del Natale. Quando Gesù è nato, la grande ruota della storia per un attimo si è fermata per contemplare questa immensa Gloria che viene da Dio stesso che si fece carne. Poi qualcosa ha cominciato a girare al contrario; o meglio, nel senso vero della storia. «Viene nel mondo la luce vera» (Gv 1,9): da Dio verso l’uomo, dal grande verso il piccolo, da una città verso la stalla, i re Magi verso il Bambino, il forte a servizio del debole. Il Verbo di Dio è l’inizio del capovolgimento totale, di un nuovo ordinamento di tutte le cose, è il giudizio del mondo. E la sua redenzione. Dice che la storia non appartiene a chi fa sfoggio di forza o di denaro. Quella è considerata soltanto una storia perdente. La storia vera e autentica è l’opera di chi si colloca là dove nessuno vorrebbe essere, nell’umiltà del servizio verso i poveri, nell’insignificanza solo apparente della bontà, nel silenzio degli uomini di buona volontà. Maria, incinta di Gesù, l’aveva anticipato nel suo canto: «Ha rovesciato i violenti, ha innalzato i deboli. Chi si fida della ricchezza terrena sarà a mani vuote e possiederà un cuore vuoto, senza anima. Chi si fida della bontà che viene da Dio stesso possederà la terra». È il bambino Gesù dentro la mangiatoia a compiere il giudizio e da piena libertà alla redenzione del mondo. A chi accetta di avvicinarsi a lui con cuore puro e sincero, accade qualcosa di meraviglioso che difficilmente si riesce a spiegare con le proprie parole. Recarci davanti a quella che non è neppure una culla, ma una semplice mangiatoia, ci trasforma in esseri nuovi, fatti di luce, ripieni di Grazia santificante del Figlio di Dio. Chi di noi celebrerà bene il Natale? Chi depone davanti a quel Bambino ogni arroganza, ogni distanza, e riscopre la volontà d’amore. Chi non esporta morte ma comunione, chi accoglie Dio nella sua carne e diventa un tutt’uno nel suo amore. Perché Dio viene nella vita, accade nella concretezza dei nostri gesti, deve abitare nei nostri cuori. E il nostro sguardo verso questo Dio che dal Paradiso scende sulla terra e si fa carne, allora si fa tenero, attento a tutte le nostre necessità. Vera grandezza è essere abitati da Dio. E se Dio ha voluto nascere in una stalla, non si scandalizzerà di me, dello sporco che è in me, abiterà le mie miserie il nodo di povertà, e che egli trasformerà con la sua Grazia. Cristo nasce perché noi nasciamo insieme con lui, e desidera che io e tutta l’umanità nasciamo diversi e nuovi, dallo Spirito di Dio, piccoli e liberi da essere incapaci di aggredire, di odiare, di minacciare i nostri stessi simili, ma, dobbiamo nascere umili da pensare con il cuore e non con la mente.
Conseguenze dell’incarnazione
  • “In quanto Verbum caro factum est……”, Gesù è la Parola definitiva mandata da Dio Padre di Dio agli uomini per la loro salvezza (Eb 1,1-4) L’incarnazione è la porta o via della rivelazione del mistero supremo di Dio, unico nelle Tre Persone uguali e distinte, ed essa è, nello stesso tempo, il cardine insopprimibile della redenzione dell’uomo operata nella passione e nella croce di Cristo”.
  • Perennità dell’incarnazione: “perdura l’unione della Persona divina con la natura umana, che di conseguenza permane l’umanità assunta come centro di tutte le relazioni tra Dio e gli uomini. Una mediazione piena, che si orienta in due direzioni ben definite: da Dio verso l’uomo e dell’uomo verso Dio. Il Cristo che oggi ci guarda ed agisce e al quale noi parliamo e rivolgiamo preghiere, è lo stesso che visse in terra duemila anni fa, di uguale struttura e ugualmente operante”
  • Dichiara il Concilio Vaticano II: “In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” (GS 22). L’umanizzazione di Dio culmina nella piena umanizzazione dell’uomo, anzi nella sua ‘divinizzazione’, secondo i Padri Greci. “Mediante la dottrina dell’incarnazione il cristianesimo ha sottolineato la dignità eminente della natura umana, la sua collaborazione attiva alla salvezza, la sua partecipazione alla vita divina trinitaria, l’efficacia del suo impegno nella trasformazione del mondo e nel miglioramento della storia”.
  • “Tutti gli uomini, anche quelli che non hanno conosciuto il Vangelo, rientrano nel piano di salvezza, distinto da quello che avevano prima dell’incarnazione. Rientrano nell’economia della salvezza, coloro che sono credenti, ma anche in non credenti, perché Cristo, è venuto nel mondo a salvare tutti, senza distinzione di alcuno”.
  • Tutta la natura profuma di Cristo. “Il Cristo si ammanta organicamente nella maestà della sua creazione. È, per questo motivo, che l’uomo si rivela, senza metafora, capace di subire e di scoprire il suo Dio mediante tutta la lunghezza, tutto lo spessore, tutta la profondità del mondo in movimento. Poter dire letteralmente a Dio che lo si ama, non soltanto con tutto il corpo, con il cuore, con tutta l’anima, ma con tutto l’universo in via di unificazione, ecco una preghiera valida e concreta che si può recitare solo nello spazio-tempo di questo mondo”.
  • L’Eucaristia è incarnazione che continua fino alla fine del tempo. Scrive Papa Francesco: “l’Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull’altare del mondo. Essa unisce il cielo e la terra. Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo, per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla. Il mondo uscito dalle mani di Dio creatore torna a lui redento da Cristo”.
  • Il Verbo incarnato dimora in noi: “Se infatti ‘il Verbo si è fatto carne è veramente noi riceviamo il Verbo incarnato mediante il cibo eucaristico, come non credere che egli dimora naturalmente in noi? Lui che, per la sua nascita come uomo, ha preso la natura della nostra carne ormai inseparabile da lui e ha congiunto la natura della sua carne con la natura divina nel sacramento con cui ci comunica la sua carne? Per questa via tutti siamo una cosa sola, perché in Cristo è il Padre e nello stesso tempo Cristo è in noi” (La Trinità).
  • L’incarnazione del verbo di Dio “è motivo di un atteggiamento peculiare di fronte alle realtà terrene.” “Per opera della Creazione, e soprattutto dell’Incarnazione, niente è profano, quaggiù, per chi sa vedere e sa apprezzare. Anzi, tutto è considerato sacro per chi distingue, in ogni creatura, la particella sottoposta all’attrazione di Cristo in via di consumazione. Mai, in nessun caso, «sia che mangiate, sia che beviate», acconsentite a fare alcuna cosa senza averne riconosciuto prima, e senza ricercarne poi, fino in fondo, il significato e il valore costruttivo in Cristo Gesù. Dalle mani che la impastano fino a quelle che la consacrano, la grande Ostia universale dovrebbe essere preparata e maneggiata solo con adorazione e senso di rispetto. Il cristiano cerca Dio, e Dio cerca senza sosta tutte le sue creature sparse in ogni angolo della terra. Ci troviamo talmente avvolti e pervasi dalla Divina presenza, che non ci rimane neppure un posto libero per cadere in ginocchio fosse anche in fondo a noi stessi. Per mezzo di tutte le creature, nessuna esclusa, il Divino ci assedia, ci invade, ci impasta e ci modella secondo il suo progetto primario, salvaci dalla dannazione eterna”
  • “Per il cristiano le realtà mondane continuano ad essere non impedimenti, ma tramiti efficaci e insostituibili all’unione con Dio. Si afferma così una spiritualità dell’incarnazione per cui anche la famiglia, il lavoro, l’apostolato diventano luoghi di santificazione e di esperienza mistica, sorgente di impegno per la liberazione, la giustizia, la solidarietà, l’accoglienza del diverso, in modo particolare i poveri e gli abbandonati, offrire un servizio d’amore e rispetto all’emarginato.” Il Cristianesimo è un’anima possente che conferisce un significato, un fascino e una leggerezza nuova a ciò che già facevamo. Il cristiano riconosce come sua funzione specifica la divinizzazione del Mondo in Gesù Cristo, mediante la sua Chiesa”
  • L’incarnazione è il punto fondamentale di partenza e il modello prescelto della Chiesa nelle sue funzioni, con rappresentazioni, immagini, ma soprattutto con i sacramenti della vita cristiana. È l’assoluto punto di partenza della teologia. “Il fatto che nell’affermazione sta al centro il corpo caro cardo salutis (la carne è la via maestra della salvezza) è il nucleo centrale di tutta la verità della “cristologia del Logos-sarx” del cristianesimo primitivo che resta sempre attuale e non tramonta mai”.
  • La chiesa per essere in grado di offrire a tutti i misteri della salvezza e la vita che Dio ha portato all’uomo, deve cercare di inserirsi in tutti questi raggruppamenti con lo stesso metodo, con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si legò al quel certo ambiente socio-culturale degli uomini, in mezzo ai quali visse, patì, morì e il terzo giorno risuscito dai morti, per portare compimento al progetto primario di Dio, la salvezza dell’intera umanità” (AG 10).
Il Figlio lo ha rivelato, ma non tutti gli uomini lo hanno accettato.
La conclusione del prologo si riallaccia al suo inizio e lo completa: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (v. 18). Durante l’Ultima Cena prima dell’avvento del tradimento da parte di Giuda iscariota, uno dei discepoli chiederà a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gesù gli risponde: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso, ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse» (14,7-11). Il miglior commento è quello riportato nella costituzione dogmatica Dei Verbum: «Dopo aver Iddio, a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, “alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Mandò, infatti, il suo Figlio, il Verbo Eterno esistente prima che ogni cosa fosse creata, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio (Gv 1,1-18), Gesù Cristo, dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini” (Diogneto, 7,4), “parla le parole di Dio” (Gv 3,34) e porta a compimento l’opera e il progetto di salvezza affidatagli dal Padre (Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che vale a dire, Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna» (DV 4). Pertanto, il prologo di Giovanni, che la Liturgia della Chiesa ci propone come Vangelo del giorno di Natale, deve condurci a celebrare questa festa in modo più pieno e profondo, superando quella riduzione folcloristica e sentimentale, alla quale si indulge facilmente, ma che non lascia una grande traccia nella fede e nella vita dei fedeli, anche nella nostra. Natale vuol dire soltanto “incarnazione” del Verbo di Dio: ma, il Figlio di Dio viene a rivelarci il Padre e il suo amore che salva nell’umiltà e la povertà di una stalla. Accogliere, amare, pregare il Verbo incarnato è credere pienamente in lui per avere la vita, una vita abbondante, “grazia su grazia”. Questo è il grande dono che riceviamo e che, a nostra volta, possiamo trasmettere fedelmente a tutti gli uomini di buona volontà. La luce del Verbo di Dio fatto carne per la nostra salvezza splende con tutta la sua potenza in mezzo alle tenebre provocate dal male, dalla morte e dal peccato. Purtroppo, oggi nel nostro tempo, il Verbo incarnato non viene accolto nel mondo, e non deve stupirci, anzi, noi che ci consideriamo credenti dobbiamo essere fiaccole lucenti che illuminano le tenebre del peccato e portano a tutti gli uomini la Buona Novella, per essere tutti salvati e condotti alla Vera Patria di appartenenza, il Paradiso.

CAPITOLO II
L’incarnazione del Verbo di Dio nel grembo verginale di Maria Santissima.

“Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Allora Maria disse all’angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”. Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio”. Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei.” (Lc, 28 – 38). L'annunciazione per mezzo dell’Angelo Gabriele e il concepimento verginale di Maria nel medesimo momento del ricevimento della notizia, costituiscono il vertice teologico del racconto dell’Evangelista Luca sull'infanzia di Gesù. In esso vi è un concentrato di riferimenti biblici testamentari, che, riportati in questo determinato contesto, sottolineano come non solo l'Antico Testamento già conteneva in sé il Nuovo Testamento, ma come proprio nel suo insieme trova il suo pieno compimento e la sua piena realizzazione del Piano Salvifico concepito dalla mente di Dio Padre, prima della creazione di tutto ciò che esiste. Maria viene presentata avvolta da un alone divino (Lc 1,28), che richiama il cantico del terzo Isaia e in cui vibra l'intonazione del “Magnificat Anima mea Dominum” (Lc 1,46-47) : "Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio Salvatore, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come un sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli" (Is 61,10). Maria, dunque, è la sposa del Signore e rivestita della sua luce. La figura di Gesù è fin da subito viene inquadrata in duplice modo: da un lato, egli è definito "Figlio dell'Altissimo", pertanto, le sue origini sono divine e nel suo sangue scorre, per così dire, il DNA di Dio. Perciò, egli condivide la stessa Natura Divina del Padre, di cui è il Figlio Unigenito; generato e non creato dal Padre ancor prima che da Maria si fosse incarnato. Dall'altro, in Gesù, Luca legge la realizzazione della profezia di Natan, fatta al re Davide (2Sam 7,8-16). Questo connubio trascendentale e storico, definisce Gesù come Uomo-Dio. Ma l'habitat naturale di cui tutto ciò si compie e in cui tutto viene avvolto è lo Spirito Santo; è lui il motore di ogni nuova creazione, che inietta nel creato la vita stessa di Dio, accorpando a Lui ogni creatura che infuoca con i suoi raggi di amore. Tale azione rigeneratrice dello Spirito Santo ha il suo principio e il suo inizio storico in Gesù e si esprime tramite lui in diverse tappe della sua vita terrena. Gesù, è dunque l'uomo nuovo, nato dal connubio tra Dio e l'uomo, e da cui discende una nuova umanità rigenerata dallo Spirito Santo. In Gesù Cristo, cioè in Gesù risorto, Dio e l'uomo hanno fatto pace e si sono riconciliati per mezzo della sua offerta volontaria alla morte di Croce. I due, quindi, parafrasando San Paolo, sono diventati in Cristo una sola nuova realtà spirituale, che troverà la sua piena realizzazione e il suo pieno splendore nella risurrezione del Cristo. Maria è una giovane vergine promessa sposa di Giuseppe, di Nazareth, uno sconosciuto villaggio della Galilea. Inconcepibile, per la mentalità del tempo, che il Messia potesse nascere in Galilea e non in Giudea e, soprattutto, a Gerusalemme, considerata fin dalla sua edificazione la Città Santa, dove pellegrinarono Profeti e Messaggeri di Dio; ma ancora più assurdo è che un Angelo del Signore rivolga la parola ad un’umile donna, cui neanche i rabbini potevano rivolgere la parola (si rammenti la sorpresa della donna e dei discepoli nell’episodio di Gesù e la samaritana raccontato in Gv 4, 1-42). Anche a Maria, come a Zaccaria, viene detto da Gabriele che concepirà e partorirà un bambino, il figlio delle profezie, il precursore del messia davidico, ovvero il figlio di Dio (vv. 28-33). Il Testo di Luca 1, 26 – 38 si presenta letterariamente ben strutturato: inizia con l'ingresso dell'Angelo presso la vergine (v. 28) e termina con la partenza dell'Angelo dalla medesima (v. 38). Abbiamo un'introduzione con la presentazione della situazione dettagliata di ciò che dovrà avvenire e dei personaggi che sono gli attori principali della redenzione dell’uomo. Troviamo un unico verbo: fu mandato, passivo che ha come soggetto logico Dio stesso. Viene presentata una situazione temporale (sesto mese) e luogo preciso e ben definito (una città della Galilea); sono dati i nomi dei personaggi: Gabriele, il nome dello sposo Giuseppe e della vergine Maria. Per Tre volte troviamo il termine: Nazareth, Giuseppe, Maria. Ora analizzeremo il testo di Luca:
Ti saluto. È il saluto usato dai Greci fin dai tempi antichi e per questo è stato tradotto “ti saluto”, lo troviamo anche Mc.15, 18; Atti 15, 23; 23, 26 anche se si evidenzia con “Rallegrati” sembra essere una traduzione più appropriata in quanto rende meglio il senso del saluto greco. Certamente possiamo dire che Luca ha voluto esprimere: un saluto; la gioia (messianica) che circonda tale saluto e che precede un annuncio di gioia, una gioia che in Luca è presente là dove si manifesta la salvezza (1, 14); l’avverarsi degli oracoli profetici.
Piena di grazia. Dal greco Kecharitoméne. Qui per grazia s’intende non tanto la grazia santificante come concetto teologico posteriore, ma di «favore, benevolenza» adesso, nello stato attuale, ossia, Maria è favorita, prescelta, ben voluta, amata da Dio, perché scelta prima della creazione del mondo per essere la Madre senza ombra di macchia del Verbo di Dio fatto carne. Il termine “Kecharitoméne” ha un significato non facile da rendere in italiano con una sola parola. Potremmo tradurlo come “tu che sei stata e sei perennemente in stato di grazia”. Si tratta di uno stato permanente. Ma il volto di Maria non è mai quello dell’ostentazione, ma bensì sempre quello di una povertà ricolmata dalla grazia santificante di Dio. È, e rimarrà sempre, il ritratto dell’amore gratuito di Dio per la salvezza dell’intera progenie umana.
Il Signore è con te. È una promessa totale di assistenza da parte del Signore; la ritroviamo spesso nei racconti di vocazione dell’A.T. (Gen. 26, 3-24; Es. 3,12; Gs 1,5; Gdc. 6,12; Ger. 1,8-19), ed è una promessa di assistenza fatta nel momento in cui Dio affida a qualcuno una missione importante. Supera il valore di un semplice saluto o di un generico augurio. Indica invece il motivo di quella gioia messianica, e contiene in sintesi la realtà promessa, cioè la realtà di Dio – salvatore. Maria diviene il segno della presenza salvifica di Dio in mezzo al Suo Popolo. Iddio è con Lei che sarà la Madre del Dio con noi. In questo senso si può intendere anche come «il Signore è in mezzo a te»: attraverso la sua maternità, Dio sarà tra il suo popolo, per recargli la salvezza.
A queste parole ella rimase turbata. È un turbamento che di solito è presente nei racconti di vocazione, originato dalle parole dell’Angelo Gabriele, ciò significa che, quelle parole non sono risuonate, a Maria, pienamente comprensibili, oppure, forse è proprio perché le ha comprese che si è turbata? Ma risuonavano dentro di lei alquanto misteriose, profetiche.
E si domandava che senso avesse un tale saluto. Ella cerca, inutilmente, di misurare dentro di sé il peso e la portata di quelle parole che venivano dall’alto, proprio da Dio stesso. L’Angelo precede la sua domanda. La reazione di Maria è comprensibile. Questo misterioso visitatore le rivolge un saluto pieno di significato per un israelita; tante volte ella avrà udito nella sinagoga proclamare e interpretare il significato di quelle parole. Ma rivolte a lei la gettano in uno stato di disagio, si trova interiormente sconvolta. È poi per un Giudeo è impensabile che l'Angelo, che sta di fronte al trono di Dio, possa essere inviato a una ragazza umile e povera, per di più nella città galelaica di Nazareth. Secondo il costume giudaico del tempo, a una donna non si porgeva saluto alcuno. Questo contesto religioso e culturale spiega il turbamento di Maria all'ascolto delle parole dell'Angelo.
L’angelo le disse: “non temere…”. La formula è quella d’uso nei racconti di una chiamata vocazionale. Spesso precede la Parola di Dio (Gen. 15,1; 26,24; Gdc. 6, 23; ecc.) ed il senso è chiaro: davanti ad un compito arduo questa formula rassicura, calma, dà fiducia a colui che non si sente all’altezza della vocazione ricevuta, a causa della sproporzione abissale che percepisce esserci tra Dio e l’uomo, tra il Santo e il peccatore, tra la potenza e la debolezza. È interessante sapere che questa piccola frase nella Bibbia è ripetuta ben 365 volte, come i giorni dell’anno. È come dire: ogni giorno Dio ti rassicura; Dio è con noi, infatti, è il senso del nome Emmanuele, chi sarà contro di noi?
Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Questo concetto ha una connotazione temporale molto intensa. Indica quasi una contemporaneità all’annuncio, perché è propria della dinamica di Dio: quando Egli parla allo stesso tempo fa, compie, opera. Ma in questo caso non prima di aver avuto il libero consenso della sua creatura a cui ha proposto questa meraviglioso evento. Il Signore è sempre il primo a rispettare la nostra libertà. Il nome del Figlio di Maria sarà Gesù; l’evangelista Matteo nel suo annuncio a Giuseppe ci aiuta a comprendere il senso di questo nome perché spiega “Egli, infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati”. La parola “Iesus” è la forma latina del greco “Ἰησοῦς” [Iesoys], che a sua volta è la traslitterazione dell’ebraico “ע ְיהשֹו” [Jeshua o Joshua, o ancora Jehoshua], che significa: «Il Signore è la salvezza». Il Catechismo della Chiesa Cattolica in proposito dice: “Gesù” vuol dire in ebraico: «Dio salva». All’Annunciazione, l’angelo Gabriele gli dà il nome di Gesù, esprimendo insieme la sua identità e la sua missione (CCC 430). Il nome Gesù era un nome corrente nell’Antico Testamento e tantomeno all’epoca della nascita di Gesù. Era strettamente legato al nome di Giosuè. Per questa ragione la figura di Giosuè, nell’Antico Testamento specie nel libro dei Numeri, è spesso considerata una prefigurazione di Gesù, che condurrà il Popolo di Dio nella terra promessa. Secondo alcune fonti antiche, il nome greco sarebbe legato al verbo ιἆσθαι [iasthai], che significa “guarire”. Non fa dunque sorpresa che certi Padri greci antichi abbiano associato il nome di Gesù a questa medesima radice. Il nome di Gesù è dunque un nome potente, che manifesta da un lato chi è Gesù e dall’altra qual è la sua missione sulla terra. Gesù vuol dire: JHWH, Colui che salva e redime.
Sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine. Abbiamo qui una serie di titoli messianici: Sarà grande, lo si dice anche del Battista (1, 15). Figlio dell’Altissimo, non viene espressa chiaramente la figliolanza divina perché questo titolo nell’ Antico Testamento è dato a tutti coloro che sono in un rapporto di speciale intimità con Dio (Sal.29,1; Sap.18,13; Os.11,1; 2 Sam.7 14). Tuttavia, qui si prepara quel significato teologicamente più pregnante che l’espressione “Figlio di Dio” avrà nel v.35. Del Battista si dice solo che sarà “profeta dell’Altissimo”, colui che spiana la strada al Messia.
Gli darà il trono di Davide. Secondo una tradizione largamente testimoniata dall’A.T. (2 Sam.7, 12; Sal.89,36ss ; Mic.4,7 ; Dn.7,14) il Messia verrà dalla Casa di Davide e da Davide erediterà il Regno. Da notare che tutto questo arriva a Gesù non per trasmissione di sangue, in quanto San Giuseppe non è suo padre secondo la carne ma per la fedeltà di Dio alle sue promesse.
Allora Maria disse: “eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto. Una donna sterile che diventa madre. Maria crede, non dopo aver visto Elisabetta, ma prima, anzi subito, appena apprese la bellissima notizia dall’Angelo.
Avvenga a me secondo la tua parola. Rassegnazione o gioia di essere la Madre di Dio? Nel primo caso, si deve ritenere che Maria non abbia capito un granché di quanto le andava accadendo e che, ciò nonostante, si sia resa disponibile a un progetto in un primo momento incompreso. L'idea di Luca e protocristiana è invece di raccontare l'esplosiva gioia di Maria per aver capito di essere stata assunta al ruolo di collaboratrice di Dio, in questa vicenda, carica di senso, Maria appare credente e serva ubbidiente alla volontà di Dio Creatore.
Serva del Signore. La formula è usata nel Nuovo Testamento solo per Maria; bel titolo protocristiano, che scelgono Luca e la sua comunità. È una formula di tradizione biblica che indica chi ha ricevuto un incarico dal Signore e contemporaneamente dà prova di docilità, fede e disponibilità. Maria è la serva del Signore perché accetta il Suo Progetto di redenzione dell’umanità che passa proprio per la sua umile persona, pur senza capirne tutta la portata e le conseguenze che ne derivano “la Pellegrina nella e della fede!”. Maria è una donna vera che risponde a una vocazione immensa e incomparabile “senza proteste d’indegnità e senza lirica d’esultanza”, umile e disponibile al volere di Dio.
E l’angelo partì da lei. La scena che si era aperta con l’arrivo dell’Angelo si chiude ora con la sua partenza. È posta come un’affermazione lapidaria: non c’è più, egli è tornato in cielo ha continuare a contemplare il volto di Dio. Maria rimane sola con il Suo Mistero che c’è ma ancora non si vede, sola con la sua fede, con il suo amore per dio, con la sua umiltà, ma fisicamente sola!
Ora dopo aver esaminato passo dopo passo come avvenne l’Annunciazione del Signore, passiamo a analizzare la meditazione. La meditatio è la ricerca del messaggio profondo del testo della sacra scrittura. Dopo aver studiato il testo e dopo averne assorbito nel nostro cuore il messaggio divino, meditiamo con le riflessioni di Sant’Agostino con il Sermone 72/A, 7. “Ecco, fratelli miei, ponete attenzione, ve ne scongiuro, a ciò che dice Cristo Signore stendendo la mano verso i suoi discepoli: Sono questi mia madre e i miei fratelli. E se uno farà la volontà del Padre mio che mi ha inviato, egli è mio fratello, mia sorella e mia madre (Mt 12,49-50). Non fece forse la volontà del Padre la vergine Maria, la quale per la fede credette, per la fede concepì, fu scelta perché da lei la salvezza nascesse per noi tra gli uomini, e fu creata da Cristo prima che Cristo fosse creato nel suo seno? Santa Maria fece la volontà del Padre e la fece interamente; e perciò vale di più per Maria essere stata discepola di Cristo anziché madre di Cristo; vale di più, è una prerogativa felice essere stata discepola anziché madre di Cristo. Maria era felice poiché, prima di darlo alla luce, portò nel ventre il Maestro. Vedi se non è come dico. Mentre il Signore passava seguito dalle folle e compiva miracoli propri di Dio, una donna esclamò: Beato il ventre che ti ha portato! (Lc 11,27). Il Signore però, perché non si cercasse la felicità nella carne, che cosa rispose? Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (Lc 11,28). È per questo, dunque, che anche Maria fu beata, poiché ascoltò la parola di Dio e la mise in pratica. Custodì la verità nella mente più che la carne nel ventre. La verità è Cristo, la carne è Cristo: Cristo verità nella mente di Maria, Cristo carne nel ventre di Maria; vale più ciò che è nella mente anziché ciò che si porta nel ventre. Santa è Maria, beata è Maria, ma più importante è la Chiesa che non la vergine Maria. Perché? Maria è una parte della Chiesa, un membro santo, eccellente, superiore a tutti gli altri, ma tuttavia un membro di tutto il corpo. Se è un membro di tutto il corpo, senza dubbio più importante di un membro è il corpo. Il capo è il Signore, e capo e corpo formano il Cristo totale. Che dire? Abbiamo un capo divino, abbiamo Dio per capo”.
  • Nel brano dell’Annunciazione si ripete il motivo della vocazione. La vocazione di Maria è un invito alla gioia profetica perfetta che si compie nel progetto di Dio per la salvezza dell’umanità.
  • La Vergine sente le parole dell’Angelo come volontà di Dio e non pone resistenza al suo piano di redenzione.
  • Nel progetto di Dio scopriamo anche il nostro progetto di felicità in qualità di suoi figli, creati a sua immagine e somiglianza.
E ‘questo il momento in cui durante la preghiera meditativa che parte dall’intimo del nostro cuore si dialoga con Dio. La mia/nostra preghiera, che è colloquio con Dio, risponde sulla stessa lunghezza d’onda del messaggio che nel momento della Lectio ci è giunta. Dal cielo viene la preghiera che fluisce a noi dalla Parola di Dio che ci è data di conoscere e comprendere nella Lectio e nella Meditatio della Sacra Pagina e che sgorga in noi per la grazia dello Spirito Santo, che viene in aiuto alla nostra debolezza e provata fragilità. É lo Spirito Santo che suscita in noi la preghiera vera, a noi il compito di prestare le labbra e il cuore riconoscente e ripetere ciò che lo Spirito Santo ci suggerisce e dà la forza di dire al nostro Signore cosa abbiamo nel nostro cuore, le nostre mancanze, avversità con tutto che quotidianamente ci circonda. Quanto questa preghiera è presente attivamente nel nostro cuore, essa, si trasforma in preghiera rivolta a Dio. La contemplatio è elevarsi a Dio e guardare le cose come lui le guarda. È immergersi nella Parola di Dio che nella Lectio ci ha parlato, è, che nella meditatio approfondiamo, di cui, si trasforma in preghiera/dialogo con Dio, e ci spinge come ha fatto con Maria a non fare nulla se non a guardare con gli occhi della fede a Dio, che ci parla e ci conforta nei momenti di grave avversità e fragilità umana. Noi nella contemplazione non vediamo Dio con i nostri occhi fisici: ma si vive un atteggiamento di fede per cui lo sappiamo soltanto noi. A questo punto il silenzio è la forma più opportuna, più adatta per avvertire la presenza di Dio nella nostra anima. Un silenzio lo possiamo iniziare con l’ultimo versetto del brano che abbiamo fatto oggetto della nostra Lectio Divina: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Luca 1,38). Quindi possiamo definire la contemplazione, il continuo desiderio dell’anima per lo sposo amato. Un grande ed immenso desiderio, che é amore insaziabile irreprensibile, che coinvolge tutto il nostro intimo. La contemplazione è dono della grazia divina e mai il solo sforzo del singolo. L’actio richiede il nostro impegno concreto nel mondo che vogliamo attuare nella nostra vita quotidiana al termine di questo cammino fatto con la Lectio Divina non è il risultato di una nostra scelta, ma la maturazione concreta di quanto Dio ci chiede. Actio è fare pienamente la volontà di Dio che è Grazia e salvezza per tutti, e per noi è il dono della vita ai fratelli. Prendiamo ora in considerazione il pensiero del filosofo J. Maritain, di cui auspicava che la contemplazione venisse portata per le strade. In tal modo si avvera il realismo della contemplazione, che è amore concreto e non speculazione: “É meglio amare Dio che conoscerlo speculativamente. E ‘meglio amare i fratelli recanti in sé l’immagine di Dio anziché conoscerli astrattamente”. Al termine della Lectio Divina siamo invitati dunque in quest’ultimo passo a individuare concretamente un modo di applicare quanto la Parola di Dio ci ha suggerito nel cuore nella vita di ogni giorno, per dare un aiuto concreto ai poveri, agli afflitti e a coloro che sono emarginati e non accettati dalla società consumistica e materialista.
Tornando al discorso dell’Annunciazione bisogna aggiungere che, con la riforma del calendario del 1969 il nome di questa festa venne cambiato da “Annunciazione alla Vergine Maria” in “Annunciazione del Signore”. L’annuncio, comunque, fu rivolto alla Vergine Maria e costituisce una parte vitale e fondamentale del suo ruolo nella storia della salvezza dell’intera umanità, infangata dalle seduzioni del male che non dorme mai, ma è sempre attivo a fare danni al mondo intero, insieme alle altre feste ricordate dalla Chiesa. Questa celebrazione non esisteva nei primi secoli della Chiesa, quando nella liturgia venivano ricordati solo i martiri che hanno dato la propria vita per propagare il Vangelo. Tuttavia, come per altre feste ricordate dalle basiliche della Terra Santa, da quando l’imperatrice Elena costruì una chiesa sulla casa di Nazareth nel IV secolo, una festa locale prese campo e i pellegrini di ritorno dalla Palestina la diffusero nel resto del mondo cristiano. Nel II secolo Tertulliano riporta la tradizione secondo la quale la morte di Cristo avvenne il 25 marzo e S. Agostino la riprende aggiungendo, probabilmente in conformità a una credenza comunemente accettata in Africa, che la morte di Cristo ebbe luogo nello stesso giorno del suo divino concepimento. Anche in Spagna vi sono tracce della teoria che Cristo sia stato concepito il 25 marzo, ma la celebrazione della festa liturgica a ricordo dell’Annunciazione sembra dipendere piuttosto dalla definizione, un po’ prima della metà del IV secolo, del 25 dicembre come festa della nascita del Signore e dalla conseguente sottrazione di nove mesi che servono a una donna per portare il bimbo nel proprio grembo. Con la fine del VII secolo, si era ormai diffusa la data del 25 marzo come ricorrenza dell’Annunciazione, anche se non tutti la osservavano a causa del timore di alcuni vescovi di interferire nella liturgia di Quaresima e Pasqua. Essi consideravano l’Avvento il periodo più adatto per inserire la festa, e proposero il 18 dicembre. La liturgia d’Avvento, infatti, da sempre ha mantenuto e ancora mantiene tracce del ricordo dell’Annunciazione e le omelie di S. Bernardo ne sono una testimonianza importante. Il Vangelo cosa dice a proposito; il racconto di Luca si fonda su echi e citazioni dell’Antico Testamento, usando frasi consacrate da secoli all’attesa messianica. Egli scrisse il suo Vangelo tra i settanta e i novant’anni dopo gli eventi narrati, dopo aver attentamente esaminato i fatti e le eventuali prove a riguardo. Se Maria raccontò i fatti che aveva meditato in cuor suo riguardo il concepimento e la nascita di Cristo, lo deve aver fatto all’apostolo Giovanni, attraverso il quale sono arrivati fino alla Chiesa nascente. La gioia alla quale Maria, come figlia di Sion, è invitata, è fondata sulla venuta della Seconda Persona della SS.ma Trinità Gesù Cristo nostro Signore per la salvezza del mondo. Maria è il primo membro del nuovo Israele, la prima di una moltitudine a venire favorita nella nuova Era di Grazia «perché la legge venne per mezzo di Mose ma la grazia e la verità per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1, 17). Maria è consapevole, che il saluto dell’angelo implica un intervento divino che la riguarda, che la riempie di timore ma anche di attesa trepidante. Maria sarà consacrata come nuovo tempio vivente che custodirà la presenza di Dio. Matteo è più esplicito e nel suo Vangelo riporta, come profezia della nascita di Cristo, il capitolo 7 di Isaia: «La vergine concepirà e partorirà un figlio, che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio - con noi» (Mt 1, 23). Anche Giuseppe lo sposo verginale di Maria deve partecipare del mistero. Non sposata e incinta, rischiava per la Legge di quel tempo di essere bollata come adultera e punita di conseguenza con la lapidazione. La nascita di Giovanni da Elisabetta, che era sterile, è il segno che queste cose si avvereranno, perché testimoniano, come era accaduto a Sara e Abramo, che nulla è impossibile a Dio. Offrendo sé stessa quasi come una schiava, Maria esprime la sua volontà di cooperare con il progetto salvifico di Dio: «Sono la serva del Signore», e poi esclama: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1, 38). L’accettazione da parte di Maria segna il momento meraviglioso del concepimento. Il concilio di Calcedonia nel 451 dichiara: «Confessiamo che Maria Vergine è la madre di Dio perché il Verbo si fece carne e divenne uomo e, dal momento del concepimento, ha unito a sé stesso il tempio della carne che ha preso da lei»; in un’epistola sinodale ai suoi compagni vescovi, S. Sofronio dichiara la sua fede: «Fu fatto uomo nell’attimo del suo concepimento nella tutta Santa Vergine Maria». I temi che questo brano, e la relativa festa liturgica che ogni anno viene solennemente celebrata, ci insegnano e tramandano, la continuità tra il Nuovo Testamento e l'Antico, senza alcuna rottura o discrepanza. Infatti, insieme all'episodio dell'annuncio a Zaccaria utilizza lo stesso genere letterario dell'annuncio dell'intervento divino per una maternità inaspettata. Inoltre, permette di introdurre il lettore del nuovo testamento al monoteismo rigido giudeo-cristiano. Si parla di Dio senza dare nome, si parla di Angelo, figura già nota nell'antico testamento, e lo si nomina con un nome veterotestamentario. Si pongono in luce la stirpe davidica non dimenticata e il desiderio di liberazione di Israele nato già con l'evento fondatore della religione ebraica, la fuga d'Egitto.
  • La verginità di Maria “non conosco uomo” e la proposta della verginità come forma di consacrazione totale al modo di Maria.
  • L'ubbidienza fedele di Maria e la proposta della fede di Maria come esempio di fede dei semplici, perfetta, completa, esistenziale.
  • Lo stesso tema dell'esistenza dello Spirito Santo, marginalmente trattato nell'antico testamento da una chiara descrizione del rapporto cristiano tra Dio e l'uomo, “servo” ma non “schiavo”, liberamente scelta e assunta, mai scevro da gioie e paure.
Anche il Vangelo definito apocrifo o Protovangelo di Giacomo scritto presumibilmente verso la metà II secolo, contiene una narrazione dell’annunciazione: «[Maria] presa la brocca, uscì ad attingere acqua. Ed ecco una voce che diceva: “Gioisci, piena di grazia, il Signore è con te, benedetta tu tra le donne “. Essa guardava intorno, a destra e a sinistra, donde venisse la voce. Tutta tremante se ne andò a casa, posò la brocca e, presa la porpora, si sedette sul suo scanno e filava. Ed ecco un angelo del Signore si presentò dinanzi a lei, dicendo: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia davanti al Padrone di tutte le cose, e concepirai per la sua parola “. Ma essa, all’udire ciò rimase perplessa, pensando: “Dovrò io concepire per opera del Signore Iddio vivente, e partorire poi come ogni donna partorisce?” L’angelo del Signore disse: “Non così, Maria! Ti coprirà, infatti, con la sua ombra, la potenza del Signore. Perciò l’essere santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio dell’Altissimo. Gli imporrai il nome Gesù, poiché salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Maria rispose: “Ecco l’ancella del Signore davanti a lui. Mi avvenga secondo la tua parola”» Dove è avvenuta l’Annunciazione del Signore? Una tradizione antichissima identifica la casa di Maria, con la grotta che oggi si trova nella cripta della Basilica dell’Annunciazione a Nazaret. La casa era costituita da una parte scavata nella roccia (la grotta) e una parte costruita in muratura. Quest’ultima rimase a Nazaret fino alla fine del XIII secolo, quindi, venne trasferita prima a Tersatto (Trsat, Croazia) e dopo a Loreto, nelle Marche, in quanto la rioccupazione della Terrasanta da parte dei musulmani faceva temere per la sua conservazione. Secondo la tradizione, essa fu miracolosamente portata in volo da alcuni angeli (perciò la Madonna di Loreto è venerata come patrona degli aviatori). Una teoria dell’epoca moderna dice che avvenuto il trasporto per nave tra il 1291 e il 1294, per opera della famiglia Angeli Comneno, un ramo della famiglia imperiale bizantina. Riportiamo alcune testimonianze di alcuni Santi Mistici, descritta dagli Angeli del Signore:
  • SANTA GEMMA GALGANI:
La descrizione dell’Annunciazione della Vergine fatta dal suo Angelo custode. La mattina del 25 marzo L’angelo custode le dice: «ti parlerò di Maria Santissima, di una giovinetta tanto umile dinanzi al mondo, ma d’infinita grandezza davanti a Dio; ti parlerò della più bella, della più santa di tutte le creature; della figlia prediletta dell’Altissimo, di colei che veniva destinata all’impareggiabile dignità di madre di Dio» Era già notte inoltrata, e Maria Santissima se ne stava sola nella sua camera: pregava, era tutta rapita in Dio. All’improvviso si fa una gran luce in quella misera stanza, e l’arcangelo, prendendo umane sembianze e circondato da un numero infinito di angeli, va vicino a Maria, riverente e insieme maestoso. La inchina come Signora, le sorride come annunziatore di una lieta notizia, e con dolci parole così le dice: “Ave, o Maria, il Signore è con te. La benedetta tu sei fra tutte le donne “». O bello, o grande e sublime saluto, che in terra non s’era mai udito, né; si udirà mai! «Appena l’arcangelo celeste ebbe pronunziate queste parole, tacque, quasi aspettando il cenno di lei per spiegare la sua divina ambasciata. Maria però, udito il sorprendente saluto, si turbò; taceva e pensava. Ma forse credi, o figlia mia, che a Maria non fossero mai discesi gli angeli del paradiso? Essa ogni momento ne godeva la visita e i loro dolci colloqui… Essa non va ad investigare nella sua mente il senso misterioso, ma si turba perché; si crede indegna dell’Angelico saluto. Ah! figlia mia», mi ripeteva, «se Maria avesse saputo quanto la sua umiltà fosse piaciuta al Signore, non si sarebbe stimata indegna dell’ossequio di un angelo. “Come mai “, diceva tra sé, “un angelo di Dio mi chiama piena di grazia, mentre io mi riconosco immeritevole di ogni divino favore? Come mai “, ragionava tra sé Maria, “un angelo del paradiso mi chiama benedetta fra le donne, mentre sono tra le femmine la più inutile, la più vile, la più abbietta? Qual mistero mai si nasconde sotto il velo di sì eccelso saluto?” «Sappi, – qui mi disse l‘angelo mio, – che Maria Santissima, con un esempio non mai udito, fino dà suoi teneri anni aveva consacrato al celeste sposo delle anime caste il verginale suo fiore e, sebbene non fosse soggetta al senso della concupiscenza ribelle, non aveva però mancato di custodire i suoi gigli tra le spine della mortificazione.» «Spiegato l’arcano, rassicurata pienamente la vergine, il messaggero divino taceva, ansioso aspettando la risposta di lei, cioè il consenso di Maria all’incarnazione del Verbo eterno… e risponde: “Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola “. Il grande accento è proferito, Maria è la madre del Figlio dell’Altissimo. A queste parole esulta il cielo, si consola il mondo intero. L’angelo riverente si prostra innanzi alla sua signora, e poi spiega il volo e se ne ritorna in paradiso. «Accettando Maria l’incomparabile dignità di madre di Dio, accettava intanto il generoso ufficio di madre dell’umano genere. Rallegriamoci: Maria, prestando all’angelo il verecondo suo assenso, vi ha adottati per figli, divenuta la madre di tutti».
2. BEATA ANNA KATHARINA EMMERICK:
«Dal soffitto della stanza scese una tale quantità di luce che io mi sentii indotta a rifugiarmi contro la parete dove era la porta, e in quella luce vidi un giovane splendente dai lunghi capelli biondi librarsi davanti a lei. Era l’arcangelo Gabriele. «Egli le parlò, muovendo leggermente le braccia davanti a sé. Vidi le parole sotto forma di lettere luminose uscire dalla sua bocca, le lessi e le udii. Maria volse il capo piegato un po’ verso destra, però non la vidi intimidita. L’angelo continuò a parlare e Maria, come per suo ordine, sollevò il viso, alzò un po’ il velo e rispose. L’angelo parlò ancora e Maria sollevò completamente il velo, guardò l’angelo e rispose le sacre parole: “Ecco l’ancella del Signore, avvenga di me secondo la tua parola”. «La santa Vergine era in profonda estasi. La stanza era piena di splendore; io non vedevo più la luce della lampada e nemmeno il soffitto. Il cielo sembrava aperto, un raggio di luce mi consentiva di vedere l’angelo, e nel punto da cui questa luce si dipartiva vidi la figura della Santa Trinità sotto forma di luce triangolare luminosissima, e riconobbi ciò che si può soltanto implorare nella preghiera ma non interpellare: Dio onnipotente, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e tuttavia soltanto Dio onnipotente. «Quando però la santa Vergine ebbe detto: “Avvenga di me secondo la tua parola”, vidi una manifestazione alata dello Spirito Santo, non però così come viene in genere rappresentata sotto forma di una colomba. La testa era di uomo, e la luce che si dipartiva dalla figura aveva forma di ali; dalle sue mani e dal suo petto furono emanate tre sorgenti di luce che raggiunsero la santa Vergine sul fianco destro, formando con lei un tutto unico. «La santa Vergine ne fu tutta illuminata e divenne come trasparente: in lei non vi era più nulla di oscuro, di nascosto, ella risplendeva e tutta la sua figura era compenetrata di luce. «Subito dopo vidi l’angelo scomparire, il raggio di luce da cui era emerso si ritirò, come se fosse stato aspirato dal cielo, e da questo raggio di luce vidi cadere sulla Vergine tanti boccioli bianchi di rosa, ognuno con una fogliolina verde. «Dopo che l’angelo fu scomparso, vidi la santa Vergine in profonda estasi, tutta raccolta in sé stessa; e vidi che essa riconosceva l’incarnazione del Messia promesso dentro di sé come una piccola figura luminosa perfettamente formata con tutte le membra, le minuscole dita comprese. «Era circa mezzanotte quando vidi questo mistero. Dopo qualche tempo, Anna accompagnata dalle altre donne [le ancelle che abitavano con lei], entrò nella stanza di Maria. Un movimento meraviglioso nella natura le aveva destate dal sonno: sulla casa era apparsa una nuvola di luce. Quando videro la santa Vergine in ginocchio sotto la lampada, immersa in profonda ed estatica preghiera, si allontanarono subito piene di rispetto. «Dopo qualche tempo, vidi la santa Vergine alzarsi in piedi e dirigersi verso il piccolo altare collocato contro la parete. Accese la lampada appesa alla parete e pregò. La vidi andare a letto solo verso mattina»
3. SECONDO MARIA VALTORTA:
Anche Maria Valtorta nel suo “L’Evangelo come mi è stato rivelato” parla di questo misterioso e altrettanto emozionante incontro di Maria con L’arcangelo Gabriele: “Ciò che vedo. Maria, fanciulla giovanissima, quindici anni al massimo all’aspetto, è in una piccola stanza rettangolare. Una vera stanza di fanciulla. Contro una delle due pareti più lunghe è il giaciglio: un basso lettuccio senza sponde, coperto di alte stuoie o tappeti. […] Vi è molto silenzio nella casetta e nell’orto. Vi è molta pace tanto sul viso di Maria quanto nell’ambiente che la circonda. […] Maria si mette a cantare sottovoce e poi alza lievemente la voce. Non va al gran canto. Ma è già una voce che vibra nella stanzetta e nella quale si sente una vibrazione d’anima. Non capisco le parole, dette certo in ebraico. Ma, dato che ripete ogni tanto lo stesso termine, intuisco che sia qualche canto sacro, forse un salmo. Forse Maria ricorda i canti del Tempio. E deve essere un dolce ricordo, perché posa sul grembo le mani sorreggenti il filo e il fuso e alza il capo appoggiandolo indietro alla parete, accesa da un bel rossore nel viso, con gli occhi persi dietro a chissà quale soave pensiero, fatti lucidi da un’onda di pianto che non trabocca ma che li fa più grandi. Eppure, quegli occhi ridono, sorridono al pensiero che vedono e che l’astrae dal sensibile. Il viso di Maria, emergente dalla veste bianca e semplicissima, così rosato e cinto dalle trecce che porta avvolte come corona intorno al capo, pare un bel fiore. Il canto si muta in preghiera: «Signore Iddio Altissimo, non tardare oltre a mandare il tuo Servo per portare la pace sulla Terra. Suscita il tempo propizio e la vergine pura e feconda per l’avvento del tuo Cristo. Padre, Padre santo, concedi alla tua serva di offrire la sua vita a questo scopo. Concedimi di morire dopo aver visto la tua Luce e la tua Giustizia sulla Terra e di aver conosciuto che la Redenzione è compiuta. O Padre santo, manda alla Terra il Sospiro dei Profeti. Manda alla tua serva il Redentore. Che nell’ora in cui cessi il mio giorno, si apra per me la tua Dimora, perché le sue porte sono state già aperte dal tuo Cristo per tutti coloro che hanno sperato in Te. Vieni, vieni, o Spirito del Signore. Vieni ai tuoi fedeli che ti attendono. Vieni, Principe della Pace!». Maria resta assorta così… La tenda palpita più forte, come se qualcuno dietro ad essa ventilasse con qualcosa o la scuotesse per scostarla. E una luce bianca di perla fusa ad argento puro fa più chiare le pareti lievemente gialline, più vivi i colori delle stoffe, più spirituale il volto sollevato di Maria. Nella luce, e senza che la tenda sia scostata sul mistero che si compie – anzi non palpita più, pende ben rigida contro gli stipiti, come fosse parete che isola l’interno dall’esterno – si prosterna l’Arcangelo. «Non per opera di uomo sarai Madre, o Maria. Tu sei l’eterna Vergine, la Santa di Dio. Lo Spirito Santo scenderà in te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà. Perciò Santo si chiamerà Colui che nascerà da te, e Figlio di Dio. Tutto può il Signore Iddio nostro. Elisabetta, la sterile, nella sua vecchiaia ha concepito un figlio che sarà il Profeta del tuo Figlio, colui che ne prepara le vie. Il Signore ha levato a questa il suo obbrobrio, e la sua memoria resterà nelle genti congiunta al nome tuo, come il nome della sua creatura a quello del tuo Santo, e fino alla fine dei secoli le genti vi chiameranno beate per la Grazia del Signore venuta a voi ed a te specialmente, venuta alle genti per mezzo tuo. Elisabetta è nel suo sesto mese ed il suo peso la solleva al gaudio, e più la solleverà quando conoscerà la tua gioia. Nulla è impossibile a Dio, Maria, piena di Grazia. Che devo dire al mio Signore? Non ti turbi pensiero di sorta. Egli tutelerà gli interessi tuoi se a Lui ti affidi. Il mondo, il Cielo, l’Eterno attendono la tua parola!». Maria, incrociando a sua volta le mani sul petto e curvandosi in un profondo inchino, dice: «Ecco l’ancella di Dio. Si faccia di me secondo la sua parola». L’Angelo sfavilla nella gioia. Adora, poiché certo egli vede lo Spirito di Dio abbassarsi sulla Vergine curva nell’adesione, e poi scompare senza muover tenda, ma lasciandola ben tirata sul Mistero santo. Io sola, senza macchia e che non avevo avuto coniugio umano, fui esente dal generare con dolore. La tristezza e il dolore sono i frutti della colpa. Io, che ero l’Incolpevole, dovetti conoscere anche il dolore e la tristezza, perché ero la Corredentrice della nuova umanità nascente.

CAPITOLO III
Il Canto del Magnificat nella Teologia e Spiritualità Mariana

“L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.

Il Magnificat o comunemente chiamato Cantico di Maria è, una preghiera cristiana contenuta nel primo capitolo del Vangelo secondo Luca con il quale Maria encomia e pone i ringraziamenti Dio perché ha liberato il suo popolo dal terribile oppressore del mondo. Il suo nome deriva dall’incipit latino “Magnificat anima mea Dominum” che la Vergine Maria pronuncia in occasione dell’incontro con la cugina Elisabetta, dopo essersi verificato l’evento grandioso dell’Annunciazione del Verbo Incarnato nel suo grembo verginale, parte da sola da Nazaret per aiutare la cugina anch’essa incinta di Giovanni, il Percussore del Cristo che abitava nel villaggio di Ain Karem a pochi chilometri da Gerusalemme. Il Cantico di Maria può essere suddiviso in tre fasi e parti:
  • nella prima parte (vv. 48-50), Magnificat esalta la bontà dell’Onnipotente
  • nella seconda parte (vv. 51-53) la fedeltà del Salvatore, non è una speranza utopica
  • nella terza parte (vv. 54-55) si prende coscienza che le promesse fatte a Israele stanno trovando il loro dovuto compimento e la figura di Cristo rappresenta il compimento della salvezza promessa.
È fondamentale comprendere l’interpretazione ed il significato del Cantico della Vergine: la sua lettura deve essere integrale e deve essere interpretato in una doppia luce e dimensione: una prima interpretazione del Cantico deve legarsi ad una dimensione etica e storica, alla luce dell’Esodo. Una seconda dimensione e la chiave di interpretazione che è legata alla festività della Pasqua e della liberazione messianica. Il Magnificat è un canto messianico aperto che vanta una dimensione sociale ed etica che la Chiesa ed ogni fedele deve riscoprire, nella sua integrità e potenza spirituale che marchia nell’animo di ognuno di noi con la preghiera e la meditazione. Come canto di ringraziamento suole essere una sintesi tra fede e vita e si distingue tra tutte le preghiere per il suo gradito carattere “sinfonico e poetico”. La recitazione simboleggia e deve essere interpretato come un punto di incontro tra diverse categorie di persone: cattolici e protestanti, cristiani e non cristiani, liberali e carismatici, credenti e no, uomini e donne. In esso riecheggiano tanti temi già presenti nell’Antico Testamento: temi di encomio e di gratitudine verso l’Onnipotente e l’attribuzione ai ricchi di una nuova dignità: “Rovesciando i potenti, Dio li libera dalle loro vane illusioni e li promuove alla dignità dei poveri”. Infatti, il Magnificat dal punto di vista del suo significato e interpretazione vanta stretti legami con l’Antico Testamento; pertanto, può essere considerato fonte della tradizione giudeo-cristiana. In realtà, viene attribuito da molti studiosi e teologi, alla figlia di Sion e, solo successivamente, è stato attribuito a Maria. Sin dalle sue origini, questa magnifica ed elegante preghiera è diventato il Cantico della Chiesa e fa parte della Liturgia delle ore, come cantico dei vespri. Gli studiosi hanno proposto un’interpretazione: a partire da qualche frase di encomio pronunciata da Maria stessa nella Visitazione, la Chiesa giudeo-cristiana, avrebbe ampliato la breve dossologia in un salmo vero e proprio. L’Evangelista Luca avrebbe ripreso questo cantico attribuendolo alla Serva del Signore, ovvero a Maria Madre di Gesù, che lo avrebbe “trasformato” in un inno dei perseguitati e dei martiri. La stessa Vergine è l’emblema dei poveri ed è perseguitata come suo Figlio: per questo evidente motivo la chiesa e tutta la tradizione e comunità dei fedeli cristiani hanno sentito la necessità di attribuire a Maria la recitazione ed il canto del Magnificat. Maria con questo Inno si eleva a rappresentare e ad essere la portavoce privilegiata di tutti gli indigenti: ella è la personificazione del popolo santo di Dio di tutti i tempi, passati, presenti e futuri. Ancora oggi tutti i cristiani sono chiamati a cantare, lodare il Magnificat e riviverlo nella fede cattolica trasmessa dagli Apostoli; anche la Chiesa Ortodossa utilizza il Cantico della Vergine nella celebrazione quotidiana del mattutino. Impressionante è anche quante volte la musica gregoriana ha cantato il Magnificat. Il solo Orlando di Lasso, nel XVI secolo, ne ha composti ben 101 Magnificat che vanno da 4 a 6 voci. A partire dalla fine del XIX secolo è diventato oggetto di profonde ricerche critico – esegetiche che hanno portato a feconde attualizzazioni. Oggi presenta la concretezza e la coralità degli antichi canti di liberazione del popolo santo di Dio, intonati spesso dai cori parrocchiali, e guidati da grandi Maestri, come Mons. Francesco Frisina La riscoperta della valenza antropologica e sociopolitico del Magnificat, ha conferito notevole impulso alla rivalutazione della donna, sia nella società sia all’interno della Chiesa Santa di Dio, di cui Maria, si rivela la privilegiata in assoluto. Perché dobbiamo fare tanta attenzione al Magnificat? Perché in esso ci sono elementi concreti che sottolineano:
  • la misericordia di Dio verso i poveri:
  • l’energico suo intervento contro gli oppressori;
  • Maria come serva e povera del Signore, modello di identificazione di ogni credente;
  • Maria come portavoce della comunità, come donna fedele e obbediente alla Parola;
  • L’unità del canto nella glorificazione di Dio e nella lode a Colei che ha creduto che si adempisse in pieno il progetto salvifico dell’umanità.
Per questi elementi sopra indicati, possiamo essere certi che questo meraviglioso canto di Lode del è per eccellenza la preghiera della Chiesa di tutti i Tempi. Ora è strettamente necessario leggere il Magnificat, prima di tutto, nell’attuale contesto che è la pericope della Visitazione, importante collegamento tra le annunciazioni e le nascite; di Giovanni Battista e del Figlio di Dio. In questo contesto il Magnificat viene attribuito a Maria che è la protagonista della scena primaria: è lei il soggetto immediato della benedizione, la serva umile e obbediente alla quale Dio ha rivolto la sua benevolenza, il suo amore, il suo patrocinio. Il cantico va posto, pertanto, su uno sfondo di salvezza di cui l’Esodo, la Pasqua di Cristo e la liberazione escatologica, sono le tappe fondamentali della storia della salvezza. Il linguaggio del Magnificat è proprio quello dell’Esodo e ripropone i motivi del Canto del mare (Es 15,1-18), sfondo anche di molti salmi e canti di liberazione. Questa prospettiva è confermata dal passaggio dalla povertà della serva a quella del Servo di Jahwé. Tuttavia, per quanto i termini e le tematiche siano antichi, lo spirito del canto è neotestamentario, perché con la venuta di Cristo si sono inaugurati i tempi nuovi, l’Avvento del regno di Dio. La voce di Maria inaugura qui il canto del nuovo popolo che risorgerà dalle ceneri del peccato grazie al Sacrificio di Cristo sulla Croce a nuova vita, alla nascita della Sua Chiesa sparsa per il mondo, è di conseguenza, un canto che celebra la gioia di una salvezza che ha trasformato la storia del mondo. Il Cantico è pertanto:
  • Canto di Maria, perché l’evangelista le dedica particolare attenzione;
  • Canto della Chiesa la cui gioia si manifesta anzitutto nella Madre di Gesù e Madre nostra, che si propaga poi verso tutta la compagine In Maria converge il canto di Israele che si trasforma in Chiesa e diventa canto della medesima. Lei incarna il destino di tutta la comunità e ne esprime la voce.
Il Magnificat è un canto che ora lo studiamo sotto molteplici volti:
  • è un canto antico per il materiale arcaico utilizzato per cui molti studiosi lo reputano un canto veterotestamentario;
  • è un canto nuovo perché loda il compimento delle promesse di Dio in favore di noi uomini;
  • è un canto escatologico perché esprime il realizzarsi della promessa messianica, una speranza ormai completata con l’avvento di Cristo sulla terra come Vero Dio e Vero Uomo, ma che attende ancora gli ultimi tempi, quelli del suo gloriosissimo ritorno nella Gloria che porranno la fine del mondo presente marchiato dalla corruzione, dal peccato e dalla morte.
A questo punto come possiamo considerare il Magnificat, un canto liturgico o un inno di liberazione politico – sociale? I due aspetti non sono affatto alternativi ma complementari e reciproci. La Liturgia, infatti, che celebra gli eventi salvifici, contiene anche un elemento episodico – pasquale e ovverosia, celebrare la Liturgia, significa che la salvezza si è veramente realizzata per mezzo di Gesù Cristo. Il Magnificat proclama Dio salvatore potente che depone i grandi ed innalza gli umili. Questo protagonismo di Dio e la condizione di povertà nella quale interviene, non possono essere scissi tra loro, perché, il Magnificat perderebbe tutto il suo significato. Maria non è un’eroina o una creatura superiore, ma una persona umile, liberata dalla sua povertà, che collabora con Dio e proclama la sua salvezza. Il Magnificat celebra la venuta di Cristo al mondo o la sua nascita gloriosa alla Resurrezione? Secondo il contesto reale in cui è inserito, tra le annunciazioni e le nascite, non può non evocare anzitutto che è impostato in un clima del tutto natalizio. Ma ci si rende subito conto che esso ha molte cose in comune con salmi e inni. Il Cantico di Maria celebra l’evento-Cristo, compreso al partire dalla Pasqua dell’Antico Testamento e che si prolunga fino alla sua nascita terrena nella misera grotta di Betlemme. Tutti i racconti dell’infanzia sono testi pasquali che proiettano la Gloria del Risorto sugli eventi vissuti dalle sue origini terrene. È sintomatico che Maria non nomini mai il bambino e non parli della sua prossima maternità. Per questo suo sottofondo pasquale, il canto di Maria va letto alla luce del Canto del mare di Esodo 15 che celebra anch’esso la liberazione pasquale del popolo dalla schiavitù egizia. In queste prospettive si può affermare che è memoria degli eventi passati; è celebrazione attuale della definitiva salvezza operata da Cristo; è profezia di un futuro in cui la vittoria di Dio e del Cuore Immacolato di Maria trionferà sul mondo. Rispondiamo ora a questa semplice domanda: Come possiamo identificare il Magnificat, un canto teologico o mariano? Anche qui non c’è divergenza, ma convergenza totale tra i due aspetti. È un canto mariano perché teologico in quanto la vicenda della fanciulla di Nazaret è tutta opera di Dio; è teologico perché mariano, in quanto l’azione di Dio si manifesta per mezza dei Maria allo stato puro, senza compromessi con gli uomini o le logiche perverse dei potenti del mondo. Esso racconta la storia di una povera ancella di Jahwé. Pertanto, Maria scompare quasi nell’intero popolo di Dio e si confonde con esso. In risposta agli elogi evocati da Elisabetta nel momento del loro incontro, Maria benedice il Signore, appare la realizzazione dell’antico adagio: Maria è l’eco di Dio: tu parli Maria, ella ripete Dio. È un Cantico mariano e teologico, perciò: la Vergine di Nazaret è la prima destinataria della salvezza operata da Dio in Cristo, la sua prima testimone attendibile, Colei che proclama senza fine la benedizione, la misericordia e la liberazione del popolo di Dio. Alcuni autori attribuiscono direttamente a Maria la composizione del Magnificat, altri la riconducono a una posizione preconciliare. Altri ancora lo attribuiscono all’Evangelista Luca, come l’autore del Magnificat e del contesto in prosa. La maggior parte lo ritiene un salmo precedente che Luca, con opportuni ritocchi, lo ha incastonato nel racconto. Questo può essere affermato in base alla lingua utilizzata, alla struttura e alla teologia del Cantico.
Si può quindi affermare in maniera essenziale che il Magnificat si manifesta come una composizione pre – lucana sorta in ambiente liturgico, in una comunità giudeo cristiana delle origini. La lingua originale sarebbe quindi l’ebraico o addirittura l’aramaico. Le posizioni degli autori non sono unanimi: alcuni, come Gunkel, Spitta, Winter ed altri ancora, affermano che il Magnificat è solo un salmo giudaico e non contiene nulla che ci aiuti a classificarlo come cristiano e appropriato ad una nascita. Questa tesi non può essere accolta per il semplice fatto che, sebbene alcune parti del Magnificat si spiegherebbero bene in ambiente giudaico, i cantici lucani esprimono una salvezza compiuta, concetto questo che non si ritrova in nessuna situazione giudaica nei due secoli che precedettero la venuta di Gesù Cristo. Diversi autori, come Weiss, Schurmann, Von der Glotz, ritengono il Magnificat un cantico giudeo – cristiano. Se i cantici lucani esprimono infatti una mentalità giudaica, essi celebrano tuttavia un evento salvifico straordinario nel quale si compiono le Scritture. Sotto le vesti dell’AT, nel testo del Magnificat si rivela la straordinaria novità del Vangelo, un modo di cantare la salvezza dell’uomo collegato con ambienti liturgici dei primi giudeo-cristiani. Questa proposta sembra essere la più accettabile se però si tengono in dovuto conto le problematiche collegate con il cristianesimo primitivo e la primitiva liturgica adoperata dagli Apostoli dopo la Pentecoste: Il cristianesimo primitivo non si presenta conforme o omogeneo nei diversi ambienti culturali e geografici. Ci sono almeno tre grandi blocchi:
  • I giudeo- cristiani palestinesi
  • I giudeo – cristiani ellenistici
  • I cristiani provenienti dal paganesimo.
I cristiani provenienti dal paganesimo sono sicuramente estranei per mentalità alla nascita del Magnificat. Le comunità giudeo-cristiane ellenistiche sono l’anello di congiunzione tra la comunità palestinese e i cristiani provenienti dal paganesimo. Queste comunità sono anche una chiave interpretativa delle comunità giudeo-cristiane palestinesi, perché proprio da queste esse prelevarono formule liturgiche, preghiere e continuarono ad usare come lingua l’aramaico. I giudeo cristiani di Gerusalemme e Palestina hanno esercitato un enorme influsso sul cristianesimo delle origini. Il cristianesimo diffusosi sul bacino del Mediterraneo è di struttura giudaica ed ha dominato queste comunità almeno fino al 70 d.C., proprio nel periodo in cui si formava il Cristianesimo così che molta letteratura cristiana primitiva porta l’impronta del pensiero giudaico. Si deve al cristianesimo giudaico tutto il sostrato del pensiero cristiano primitivo, per cui anche i cantici lucani portano queste impronte inconfondibili. Il primo cristianesimo nasce nel contesto del Tempio e della Sinagoga, ma al tempo stesso presenta elementi di novità. I cristiani, infatti, si radunano anche nelle case private, (Chiesa Domestica), per spezzare il pane e partecipavano assiduamente alle istruzioni degli Apostoli, alla vita comunitaria, alle preghiere di lode e benedizione. Tuttavia, è un tempo in cui non esiste ancora uniformità nei gruppi, né tanto meno un ordinamento liturgico uguale per tutti.  A quale di questi gruppi può essere ascritto il Magnificat. Secondo alcuni autori sarebbe quello dei "poveri", dei quali i primi cristiani condividevano la religiosità. Luca potrebbe aver preso i cantici da una comunità di Anawin, probabilmente pagani o giudei stessi convertiti al cristianesimo e, ponendoli nel contesto delle annunciazioni e delle nascite, ne fa espressione di gioia per la concezione e la nascita di Giovanni Battista e di Gesù. D’altra parte, Maria, serva fedele e umile del Signore, incarna pienamente la spiritualità dei poveri e li ricolma di grazie e di benedizioni del Signore. Stabilito il contesto liturgico del Magnificat da un gruppo della comunità giudeo-cristiana palestinese, è chiaro che la lingua d’origine non può non essere che l’ebraico, confermata questa ipotesi anche dal fatto che i salmi di Salomone e i poemi di Qumran, sono stati scritti in ebraico e aramaico. A questo proposito si può aggiungere:
  • l’antichità del Magnificat e la sua cristologia poco sviluppata impongono la collocazione nello stadio iniziale del Cristianesimo primitivo;
  • l’importanza unica della Chiesa di Gerusalemme e il suo influsso sulla vita, la letteratura delle origini;
  • la diffusione della lingua ebraica nel culto di allora, anche fuori dai confini della Palestina.
Si può allora concludere che l’origine letteraria del Magnificat è quella di un Cantico preludano inserito dall’Evangelista nel racconto. Considerando la struttura, il linguaggio, i temi, il Magnificat è una composizione sorta in ambiente liturgico in una comunità giudeo- cristiana palestinese delle origini. Di conseguenza la lingua parlata e scritta in quel determinato periodo storico non può non essere che l’ebraico. Pur presentando molteplici interpelli con la salmodia giudaica, il Magnificat presenta anche con essa non trascurabili differenze. Notiamo in particolare: Presenta maggiori affinità con i salmi canonici per lo stile e il clima che si respira che con i testi di Qumran, i salmi e le odi di Salomone. La terminologia del Magnificat non contiene elementi sapienziali o sviluppi di detti, frequenti nella poesia del tempo, privilegiando invece la storia della salvezza. Ha un’esplosione tipica di gioia, già presente nei racconti dell’infanzia, che manca totalmente nei cantici giudaici segnati invece da tribolazioni e angustie di tempi difficili. La struttura del Magnificat ripropone, anche se non rigidamente, la forma della salmodia veterotestamentaria. Conserva perciò una struttura letteraria fedele alla poesia biblica. In essa è facile scorgervi tre parti:
  • L’introduzione: i versetti 46 e 47 in stretto parallelismo tra loro e che danno il senso a tutto il cantico. Soggetto è l’anima che celebra ed esulta in Dio datore di salvezza.
  • Il corpo centrale introdotto da "poiché" e abbraccia i versetti 48 – 53. Essi hanno per soggetto Dio, autore di salvezza. Questa centralità di Dio è sottolineata anche dai verbi che esprimono la sua superiorità sulla serva e su quanti lo temono.
  • La conclusione composta dai versetti 54 e 55, anomala rispetto agli altri cantici vetero–testamentari che, in genere, ripropongono il contenuto del corpo centrale e la formula di introduzione. Il Magnificat invece ripresenta il rapporto serva – Dio, questa volta in chiave comunitaria, ovverosia, Dio – Israele servo.
Se studiato alla luce dei generi letterari il Magnificat presenta questa struttura appena chiarita, ma riletto alla luce di strutture e approcci letterari recenti, presenta dimensioni e aspetti nuovi. Nonostante le articolazioni interne appena viste, il cantico mostra una sostanziale unità sorretta da una serie di verbi con Dio per soggetto e che costituiscono la struttura portante del testo, dunque:
  • c’è una unità articolata ma non monolitica e statica;
  • il gruppo semantico della grandezza percorre tutta la composizione;
  • la gioia pervade egualmente fin dall’inizio la composizione e domina con la grandezza tutto il cantico che celebra la salvezza e la fede dei redenti, cosa questa tipica di Luca: la salvezza in lui è premessa e condizione della gioia che è segno dell’esperienza salvifica del Padre, per mezzo del Figlio e di sua madre Maria. Grandezza e gioia sono la chiave interpretativa di tutto il contesto del Magnificat.
  • un altro elemento coagulante è l’asse grandezza – bassezza che delinea nella prima parte gli interventi di Dio Salvatore del mondo nei confronti della serva umile e di tutti coloro che lo temono, mentre nella seconda parte, passando da un rapporto bipolare ad una dimensione triadica, presenta un Dio forte che contro i potenti, ribadisce i diritti dei piccoli e degli oppressi, dandogli il giusto posta da occupare.
È il canto di Maria e della Comunità dell’Alleanza aperta ormai a tutte le genti chiamate "tutte le generazioni", "quelli che lo temono", "Abramo e la sua discendenza", esso appartiene a un genere misto che può essere diviso in due parti:
Prima Parte: 46-50
Contiene anche l’introduzione dello schema tripartito legate dalla serva che proclama il cantico ed è destinataria dell’intervento divino. La costellazione della grandezza che avvolge tutto il cantico racchiude la prima parte dove il Signore è proclamato grande (46) a causa delle sue grandi opere (49), come la creazione di tutto ciò che sussiste. L’unità della prima parte è data dai titoli diversi dati a Dio: è Misericordioso, è sollecito verso la sua serva e il suo popolo, lo sguardo che lui rivolge è un coinvolgimento diretto e attivo che si trasformerà in un’esperienza di gioia e di libertà incondizionata.
Seconda Parte: 51-55
Anche questa è in rapporto più o meno immediato con l’introduzione. Quello che Dio compie per la serva, vale anche per i piccoli, i poveri, gli esclusi e gli affamati, sottratti al dominio dei potenti oppressori (52-53), e concede a loro una vita dignitosa nella Fede e nell’Amore. I verbi di 51-54, sono anch’essi in continuità con quelli della prima parte: "Fece grandi cose il potente"(49), "fece potenza con il suo braccio"(51), anche se gli effetti nel primo caso sono a vantaggio della serva, mentre nel secondo a danno dei superbi e dei potenti. Continuità c’è anche tra la serva (48) e "Israele suo servo"(54) e ancora tra la potenza di Dio che si estende di "generazione in generazione su quelli che lo temono"(50) e "Abramo e la sua discendenza"(54b e 55b). Al 52-53 questo rapporto entra in crisi a causa della presenza, accanto alla grandezza di Dio, di una grandezza ambigua e abusiva che tende a insidiare il primato di Dio a scapito dei poveri. Una situazione intollerabile da parte di Dio che interviene in difesa dei poveri e dei deboli tiranneggiati dai potenti che usurpano una signoria che appartiene solo ed esclusivamente a Dio. Questo cambiamento di scena parla delle opere di Dio contrassegnate da una forza sconvolgente, tanto che il cantico assume un tono marziale pieno di potenza. Alla coincidenza che domina la prima parte, succede nel cuore della seconda, una cascata di chiasmi e contrapposizioni che hanno l’unico scopo di celebrare la potenza salvifica di Dio e la liberazione dei poveri da coloro che li opprimono. Dopo i vigorosi contrasti di 52-53, il canto si placa e si sofferma su Israele servo di Jaweh, liberato secondo la promessa fatta ad Abramo.
Il Magnificat ha numerosi contatti con la letteratura biblica e giudaica. Questo permette di collocarlo sulla scia di molti salmi che ricordano le grandi opere di Dio a favore del suo popolo e che nell’Esodo e nel ritorno dall’esilio in Babilonia, hanno le loro espressioni fondamentali. Questo memoriale storico – salvifico che veniva cantato da tutta la comunità dell’Alleanza nelle importanti celebrazioni liturgiche, qui è cantato da una persona sola, dalla serva del Signore che però parla anche a nome di tutto il popolo, come emerge dal riferimento a Israele suo servo. Non è quindi un semplice salmo, ma il Magnificat è il canto di tutta la comunità, intonato da una persona, una Donna che Dio ha affidato il compito di portare nel suo grembo verginale suo Figlio Gesù. Si colloca quindi sulla scia dei celebri canti di liberazione intonati da donne straordinarie e ripetuti coralmente dal popolo festante, dopo gli eccellenti interventi salvifici di Dio a favore sempre di noi uomini. Per spiegare questo termine: la bassezza della sua Serva, molti autori ricorrono all’espressione di Anna in 1Sam 1,11 ed è questo uno dei motivi per cui il Magnificat viene attribuito ad Elisabetta. Questa attribuzione non tiene tuttavia conto che il Magnificat echeggia anche testi biblici diversi, senza limitarsi a un passo particolare e che questa espressione non è poi così rara nelle Scritture anzi, secondo Spitte, è una delle più ricorrenti in tutto l’Antico Testamento. Per ben comprendere il senso dell’espressione bisogna tenere conto di tutto lo sfondo veterotestamentario giudaico al quale il Cantico è legato. In ogni caso il termine "bassezza" sembra a molti autori applicabile alla Madre del Signore:
  • Secondo Gelen ritiene che debba essere tradotto con il termine “povertà”, nozione eminentemente biblica che pienamente si addice alla Vergine Maria la quale riceve ogni dono da parte di Dio.
  • Lyonnet parla anche della possibile volontà di Maria di tenere nascosto sotto la sua verginità, la sua maternità verginale presentandosi quindi, davanti a Dio come donna senza macchia fin dal suo concepimento. Da questa situazione Dio la libera con il dono della straordinaria maternità. Come detto il Magnificat si ispira a testi diversi e non può essere legato ad uno solo in particolare.
  • Mussner collega il termine con la frase seguente: "Tutte le generazioni mi chiameranno beata" per cui il termine si può intendere così: da sconosciuta ragazza i un semplice villaggio povero, Maria diviene colei che tutte le generazioni loderanno e il suo nome sarà così alto e importante da costituire l’emblema della lode delle generazioni. Ritorna quindi nel Magnificat il principio biblico di Dio che sceglie i poveri come strumenti delle sue opere e li innalza dalla loro bassezza.
Per comprendere la positiva condizione di "bassezza" bisogna dunque penetrare nella mentalità e spiritualità di Israele e nel suo atteggiamento di umiltà davanti a Dio. La concezione greca e quella biblica sono diametralmente opposte. Centrato sulla concezione dell’uomo nella sua autonomia e libertà, lo spirito greco non può che qualificare negativamente il termine e i suoi derivati. In Israele, al contrario, soprattutto nel giudaismo postesilico, l’uomo sperimenta la propria fragilità e si pone davanti a Dio in un atteggiamento di umile e confidente dipendenza. L’umiltà occupa un posto di primo piano, anzi è la più ragionevole di tutte le virtù. Questo è il clima in cui sorge il Nuovo Testamento La spiritualità biblica dell’epoca e imbevuta di umiltà, piccolezza, mansuetudine, atteggiamenti dei quali Dio si compiace e ricolma di grazie tutti coloro che si abbassano e si umiliano alla volontà di Dio. Questo è il contesto dentro il quale bisogna spiegare il termine "bassezza", dato che il canto proviene, come già detto, da una comunità giudeo-cristiana alimentata da queste idee e dunque dalla spiritualità dei poveri che è fondamentale in tutto il Nuovo Testamento, tanto che essi sono considerati gli eredi del regno. Il termine non indica, quindi chiaramente una situazione reale sociopolitica di Maria ma descrive la povertà e inadeguatezza della serva del Signore di fronte all’onnipotenza di Dio che la invita a collaborare ai suoi misteriosi e grandiosi disegni. Maria è liberata e innalzata dalla sua umiltà e dopo la sua Assunzione in cielo in Corpo e Anima, viene incoronata Regina del Cielo e della terra, terrore dei demoni, e distruttrice dei piani del maligno. I superbi non sono un gruppo particolare all’interno del popolo di Dio, opposto ad altri gruppi, ma piuttosto i nemici di Israele che il Signore disperde ed umilia. Sono quindi le nazioni che ignorano o ingiuriano Dio e combattono Israele e le sue Leggi. Così i potenti sono i dominatori, quindi i pagani che hanno oppresso il popolo di Dio I piccoli sono, di conseguenza, gli Israeliti, il popolo di Dio liberato dall’oppressione delle nazioni pagane e dei loro capi, restituendogli la libertà e la dignità di veri figli di Dio. I ricchi e gli affamati in questo determinato contesto non indicano una connotazione sociologica, né gruppi particolari, ma Israele come nazione oppressa e depauperata dalle nazioni pagane dominatrici e fruttatrici. Per alcuni autori "affamati" è un richiamo agli ebrei miracolosamente nutriti nel deserto e "ricchi" sono gli egiziani spogliati da Israele per ordine di Dio, prima della partenza dall’Egitto. Il Magnificat è perciò un canto di liberazione che celebra la salvezza del popolo di Dio, la cui umiliazione è stata definitivamente rimarginata dalla venuta del Messia Gesù Cristo nostro Signore. Maria non è una figura dell’Antico Testamento, ma sta al confine delle due alleanze portando a compimento l’esperienza dell’Antica e anticipando con la sua fede il cammino del popolo della Nuova Alleanza. Il Magnificat è il canto dei tempi messianici nel quale confluisce il tripudio di Abramo che presentiva il Messia e risuona profeticamente anticipata la voce della Chiesa. Il canto di Maria non è più un canto di speranza ma l’annuncio di un evento grandioso, importante, compiuto di decisiva importanza per l’esistenza della serva, di Israele e della Chiesa. L’intervento di Dio che ha spezzato il potere del male ed invertito i rapporti di forza imperanti nel mondo, si è ormai realizzato nella pienezza dei tempi. Questa potenza salvifica di Dio è più forte delle violenze e ingiustizie del mondo. È Cristo con la sua nascita, vita apostolica, passione, morte e resurrezione ha sconfitto il principe di questo mondo, e tutto il suo inferno. In effetti con la sua venuta e la sua opera culminata nella Pasqua, Dio ha visitato e redento il suo popolo. Cristo è il SÌ delle promesse fatte da Dio ai Profeti, alcune delle quali si sono realizzate ed altre si compiranno al suo ritorno nella Gloria, dove verrà a giudicare i vivi e i morti, e il suo Regno non avrà mai fine. Alla prima venuta di Cristo che ha redento la storia degli uomini, ne seguirà un’altra nella quale l’umanità e il mondo entreranno nella piena libertà dei Figli di Dio. Come deve cantare il Magnificat la Chiesa che procede tra le tribolazioni, fatiche, disaggi di ogni tipo e le consolazioni di Dio? Deve recuperare un atteggiamento di Fede nell’evento salvifico del Cristo già compiuto, e nell’evento di Cristo come centro vitale della nostra storia. La salvezza definitiva non si è ancora realizzata fino a quando non ci saranno cieli nuovi e terra nuova in regnerà per sempre la giustizi, la pace la Misericordia e l’amore. Il Magnificat a questo punto diventa il canto della redenzione e della speranza: la salvezza si compie in noi come veri credenti attendiamo che Dio manifesti la sua gloria e potenza in noi e in tutto il creato. È un canto di impegno e di responsabilità collettiva perché si affretti il giorno e l’ora in cui la giustizia di Dio regni sulla terra e la salvezza abbracci tutte le dimensioni del tempo e dello spazio. È la sconfitta totale e radicale del regno del peccato, del male, annientato dall’opera redentrice del Salvatore del mondo e ormai reso immune e senza futuro, anche se attualmente il male continua a minare i progetti di Dio e il cammino del suo popolo.
In conclusione, il Magnificat è il canto della potenza e della Misericordia di Dio verso noi uomini peccatori considerato un potente intervento di Jahwé nella storia, rovesciando i potenti, e ricolmando di Misericordia tutti coloro che sono fedeli a Dio e al suo progetto di amore. Nelle parole del Magnificat la “rivelazione” si afferma come “rivoluzione”, come capovolgimento, come antinomia tra il modo di pensare dei potenti nei progetti iniqui del loro cuore e la logica salvifica e misericordiosa di Dio. Sul piano spirituale e pastorale il Magnificat indica la via maestra della santità che tutta l’umanità deve seguire, di cui la figura della Vergine Maria è segno preferenziale, una garanzia per ottenere il nostro posto nel Paradiso. Infatti, il canto al Dio “liberatore” presente nel testo di Luca è da rileggere e meditare attentamente per incontrare il mistero di Cristo all’interno dei nostri cuori. Conoscendo Gesù, scopriamo che quei verbi che descrivono le azioni di Dio rivelano anche il mistero della Vergine Maria, in quanto non è possibile disgiungere la persona del Figlio da quella della Madre.

CAPITOLO IV
La Nascita del Verbo di Dio Incarnato a Betlemme

Con i mezzi che abbiamo oggi giorno a nostra piena volontà e disposizione, possiamo prendere una copia di un quotidiano nazionale e leggere del giorno di nascita di una persona qualunque e sapere cosa sia accaduto d’importante quel giorno. Se i giornali fossero stati prodotti ai tempi dell'Impero Romano, sapremmo con esattezza il giorno in cui Gesù è nato nella misera grotta di Betlemme, e avremmo notizie riguardanti Maria e Giuseppe. Ma duemila anni fa abbiamo soltanto notizie riguardo l’imperatore di Roma Cesare Augusto e del suo l'Impero Romano, comunicati della pace gloriosa, che allora esisteva in tutto il mondo romano (Pax Romana) e non certamente di Gesù, perché nessuno lo conosceva. Eppure, fu la più grande nascita nella storia dell’umanità, quella di Gesù Cristo a Betlemme duemila anni fa. Certo ogni nascita di un bambino che viene al mondo è un evento meraviglioso, ma non come quella di Gesù Cristo, perché solo Lui ci fa conoscere realmente Dio ed essere salvati dai peccati e dall’inferno eterno. Vediamo ora storicamente tutte le circostanze: la città della nascita e la condizione in cui è nato Gesù Cristo Figlio di Dio. Nella I circostanza vediamo che c’è stato un decreto imperiale per tutto l’impero, letteralmente è su tutta la “terra-oikoumenēn”, per indicare la vastità dell’Impero Romano, Atti 11:28; 17:6; 19:27). Il v.1 dice: “In quel tempo uscì un decreto da parte di Cesare Augusto, che ordinava il censimento di tutto l'impero”. Questo si riferisce al periodo che segue la nascita di Giovanni Battista (Luca 1:80). Il termine decreto oppure, possiamo definirlo “dogma” è un atto formale del Senato Romano che una volta emesso veniva sigillato dall’Imperatore e subito diventava legge di stato, qui l’Evangelista Luca usa il termine per riferirsi ad azioni formali di vario tipo (Atti 17:7; 16:4). Prima di tutto vediamo:
  • La persona del decreto imperiale è Cesare Augusto Imperatore di Roma.
  • Al momento della nascita di Gesù, la Giudea era sotto la dominazione romana, l’imperatore era colui che aveva il dominio assoluto di tutte le terre assoggettate a Roma.
  • Figlio di Gaio Ottavio e di Azia (nipote di Cesare), Cesare Augusto nacque a Roma nel settembre del 63 a. C. e fu adottato da Cesare nel 45 a.C.
  • Cesare Augusto, non era il suo vero nome, si chiamava Gaio Ottavio, o Ottaviano, dopo l’adozione di Cesare divenne Gaio Giulio Cesare Ottaviano.
  • Divenne noto per la sua organizzazione amministrativa dell'impero dopo un'interessante ascesa al potere.
  • Dopo l'assassinio di Giulio Cesare, fu nominato capo erede e governò in un triumvirato con Marco Antonio e Lepido.
  • Lepido perse il potere nel 36 a.C. e il coinvolgimento di Antonio con Cleopatra d'Egitto lo portò in conflitto con Ottaviano.
  • Dopo aver vinto su Antonio ad Azio nel 31 a.C., fu riconosciuto come Cesare Augusto dal Senato nel 27 a.C. quando gli fu dato il nome greco onorato “Sebastos” (latino Augustus).
  • Fu il primo imperatore romano dal 31 a.C. al 14 d.C.
Il nome di “Cesare" è stato applicato anche agli imperatori romani che sono venuti dopo di lui; nel Nuovo Testamento troviamo applicato a Tiberio (Luca 3:1), a Claudio (Atti 17:7), e Nerone che fu il peggior imperatore di tutta la storia romana, crudele, sanguinario e assassino (Atti 25:8; 26:32). Cesare Augusto era considerata una persona orgogliosa, arrogante e pieno di sé. Sotto Augusto vi fu la riorganizzazione della religione imperiale, anche se non ha mai appoggiato la sua venerazione come dio durante la sua vita, ribadì la divinità del suo padre adottivo, Giulio Cesare, e si lasciò chiamare "figlio di dio", spianando la strada per la sua divinizzazione dopo la sua morte. Quando quest'uomo (Ottaviano) divenne imperatore, la questione è stata oggetto di forte discussione in tutto il senato su come doveva essere chiamato. Rifiutò di essere chiamato dittatore, perché suggeriva un ufficio temporaneo, re in quanto non significava abbastanza. Dopo una lunga consultazione con il Senato romano, prese il nome di Augusto, quindi, ha aggiunto un significato fortemente religioso e ha suggerito qualità divine, infatti, veniva esaltato come un dio in terra, venerato, di grande dignità, maestosità e grandezza di Roma. Nel suo regno fu conosciuto per il suo cambiamento di carattere, divenne pacifico e morì nel 14 d.C., fu sostituito da Tiberio Cesare, come nuovo Imperatore di Roma durante il ministero apostolico di Gesù. Tornando ad Augusto una volta insediato il suo potere divenne un amministratore famoso e saggio, in particolare riguardo l’organizzazione precisa delle sue forze militari, della sua guardia del corpo personale, i pretoriani, scegliendo con cura i suoi generali nelle varie legioni sparse per l’Impero e usando la saggezza e la strategia di guerra vinse molte battaglie, allargando sempre di più il suo impero. Mostrò una superba delicatezza nel trattare con i suoi sudditi, e permise alle province conquistate di conservare una certa misura di autogoverno. Rispettò i loro costumi, le convinzioni religiose, e anche le loro leggi, nella misura in cui essi non interferivano e non creavano ostacolo con Roma. Stimolò le arti e la letteratura, era un grande costruttore e definito un sovrano benevolo, un salvatore e il padre supremo della patria. Benché, nella prima parte della sua scalata al potere Augusto fu spietato e sanguinario, ora è conosciuto come l'imperatore che ha iniziato la pax romana, adesso il suo impero divenne noto come un regno dedito alla pace, alla giustizia e alla fratellanza dei generi. Il progetto fondamentale di Augusto era il censimento della terra come leggiamo nel v.1: “In quel tempo uscì un decreto da parte di Cesare Augusto, che ordinava il censimento di tutto l'impero”. Ora, qual era lo scopo definitivo del censimento? A che cosa serviva? Nell’Impero Romano, vi erano dei censimenti periodici con un doppio scopo: sia per il servizio militare sia per le tasse che ogni nazione conquistata da Roma, doveva versare nelle casse dell’Impero, però a chi non voleva pagare, veniva usata tutta la persuasione di stile romana. Gli studiosi che hanno approfondito la storia di Roma ribadiscono che gli ebrei erano esentati dal servizio militare, e, di conseguenza il loro scopo era quello della riscossione delle tasse. Oltretutto, il censimento era il ricordo inquietante e infangante di tutti gli ebrei durante il dominio straniero di Roma, erano segni evidenti di sottomissione e fedeltà all’imperatore. La menzione del censimento della terra serve a posizionare la nascita di Gesù nel contesto della storia del mondo e, per mostrare che Dio regna sulla terra e guida la storia, portando i suoi progetti importanti a compimento. Nel v.2 è riportato: “Questo fu il primo censimento fatto quando Quirinio quando era governatore della Siria”. Questo versetto è interpretato che Quirinio fece questo primo censimento, quindi come primo assoluto, nel senso che, non ce ne furono altri simili prima in Giudea, che ha avuto luogo in quel determinato tempo della storia. L'imperatore ha ordinato un regolare sistema di censimenti come abbiamo detto sopra che si verificavano a intervalli uguali, questo è stato il primo il più importante, perché, coinvolgeva tutta le persone che vivevano all’interno dell’Impero. Si distingue dal censimento che ebbe luogo nel 6 d.C. ma fu menzionato in Atti 5:37 dieci anni dopo. Quirino era un soldato e un amministratore capace di amministrare la Giudea. È stato vittorioso sugli Homanadensiani nel sud Galazia e nominato dall’Imperatore governatore della Siria, dopo che il figlio di Erode Archelao fu deposto come Re con l’incarico di organizzare la Giudea. Nei vv.3-5 leggiamo: “Tutti andavano a farsi registrare, ciascuno alla sua città. Dalla Galilea, dalla città di Nazaret, anche Giuseppe salì in Giudea, alla città di Davide chiamata Betlemme, perché era della casa e famiglia di Davide, per farsi registrare con Maria, sua sposa, che era incinta”. Anche Giuseppe e Maria nella piena difficoltà si spostano da Nazaret per andare a Betlemme. Maria viveva con lui come moglie fedele e devota, secondo le tradizioni ebraiche, anche se il matrimonio non era ancora stato consumato (Matteo 1:24-25). Non era necessario che Maria partisse con Giuseppe per Betlemme, a maggior ragione se era incinta, la sua gravidanza era al termine, perché lo fece? Probabilmente perché era necessario che Maria si registrasse, essendo sposa di Giuseppe. Di fatti, lasciarla da sola a casa avrebbe significato esporla con maggior facilità alla calunnia e al mormorio della gente di Nazareth. Plausibilmente Giuseppe e Maria mentre stavano preparando la casa e gli arredi per vivere insieme come una normalissima famiglia avevano già affrontato dolorosi pettegolezzi a causa della sua gravidanza.  Ossia, Maria e Giuseppe desideravano stare insieme al momento del parto perché entrambi sapevano l’evento meraviglioso che si doveva verificare, e quindi, tanto atteso dal popolo di Israele sulla nascita di questo bambino, che avrebbe cambiato il mondo. Entrambi videro l’opera di Dio compiersi e sono andati con tanti sacrifici a Betlemme dove il bambino promesso e tanto atteso doveva nascere (Michea 5:2). Dio li voleva in questa città, perché, si compisse la Scrittura.
Vediamo come tutto questo avvenne:
Il nome della città: Betlemme. "Betlemme" significa Casa del pane! il luogo dove è nato Gesù: "Il pane della vita" (Giovanni 6:35). “Tutti andavano a farsi registrare, ciascuno alla sua città” si riferisce che in Palestina, tutte le persone interessate, e secondo le usanze ebraiche, ritornavano per il censimento alla città di origine, Giuseppe ritornò nella città del suo più importante antenato: Re Davide. Giuseppe obbedisce ed è sottomesso alle autorità romana andando a Betlemme. Da Nazaret suo luogo di residenza e di vita, dovettero affrontare un viaggio lungo e faticoso senza avere i mezzi che abbiamo oggi! Hanno utilizzato un asinello come unico mezzo di trasporto. Il viaggio era di circa lungo dai 120 ai 145 chilometri, con strade polverosi e difficili, a 700 metri sul livello del mare, quindi anche una parte di strada in salita, ma Giuseppe e Maria non si tirano indietro. Con coraggio affrontarono il viaggio nella bontà misericordiosa di Dio.
Ci sono due lezioni importanti per noi che vogliamo seguire le sue vie:
  • A volte dove il Signore vuole che noi siamo nel disagio, difficoltà e spese impreviste da affrontare. Era per quel periodo un viaggio difficile, ma il Signore li voleva a Betlemme.
  • Nonostante c’è un costo, noi dobbiamo obbedire se lo richiede Dio, e fare la sua volontà.
Giuseppe e Maria hanno obbedito senza esitazione, anche se non era facile obbedire sia per motivi logistici di viaggio, sia perché pagare le tasse non piace a nessuno, sia perché questo censimento non era gradevole per un ebreo, visto come un sacrilegio, perché, secondo la loro tradizione millenaria, soltanto Dio solo poteva numerare il suo popolo e dettarne le sue Leggi. Quando Re Davide nell’Antico testamento organizzò un censimento per contare tutte le persone del Regno d'Israele, di conseguenza, portò una grande calamità sulla nazione (2 Samuele 24; 1 Cronache 21). Così Giuseppe aveva tutto il diritto di essere arrabbiato e rifiutarsi di partire per farsi censire, ma non lo fece, obbedì senza indugio.
La natura della famiglia di Giuseppe: il re Davide.
Secondo la Scrittura e i Profeti, Gesù definito il Cristo, come discendente di Davide e Messia, doveva nascere a Betlemme (Michea 5:1-2). Giuseppe, discendente del re Davide, era di Betlemme, dove Davide era nato e cresciuto (1 Samuele 16; 17:12; 20:6), ma non dove ha vissuto e governato da re, perché regnò a Gerusalemme (2 Samuele 5:7,9, 6:10, 12, 16). I documenti che riguardavano la famiglia di Giuseppe erano stati conservati in un archivio di stato, a Betlemme. I Profeti dell'Antico Testamento predissero più volte che il Messia, il Re d’Israele sarebbe nato dalla stirpe reale di Davide; Isaia 11:1; Geremia 33:15; Ezechiele 37:24; Osea 3:5. Riguardo alla regalità che fu destinata a Gesù, l’Evangelista Matteo autore del I Vangelo, mette in luce il conflitto tra re Erode e il bambino annunciato con gioia dai Magi venuti apposta da Oriente seguendo una stella per onorarlo come il Re potente che è nato in quel determinato periodo (Matteo 2:1-12). I vangeli sottolineano che Gesù è considerato “re dei Giudei”; Matteo 27:11, 29, 37; Marco 15: 2, 9, 12, 18, 26; Luca 23:3,37-38; Giovanni 18:33,39; 19:3, 19, 21, oppure, “Figlio di Davide” Matteo 9:27; 12:23; 15:22; 20:30-31; 21:9,15; 22:42, anche se l'uso del titolo di Re si ritrova anche negli altri vangeli, in particolare nei racconti dettagliati della sua passione e morte. Infine, vediamo in che condizioni è nato Gesù. Si è verificata la provvidenza di Dio su questa Santa Famiglia. Nel v.6 leggiamo: “Mentre erano là, si compì per lei il tempo del parto”. Dopo un lungo viaggio, Giuseppe e Maria arrivarono finalmente a Betlemme, e Maria diede alla luce suo figlio primogenito dove aveva profetizzato anni prima Michea (Michea 5:1-2). Quindi Dio fu con loro durante il viaggio, li ha protetti e sostenuti nella fatica e nel dolore, e fece in modo che Maria partorì senza problemi di salute. Dio è stato con loro, li ha accompagnati fino alla Città di Betlemme! Ciò che Dio progetta la porta a compimento! Giobbe 42:2; Isaia 14:27; 46:9-10). Ciò che profetizza lo realizza! Niente è troppo difficile, o impossibile per Lui, quello che progetta lo attua, nei tempi e nei modi da lui stabiliti, prima della creazione degli Angeli e del mondo con tutto ciò che sussiste. Genesi 18:14; Geremia 32:17; Matteo 19:26; Luca 1:37. A volte può sembrare in ritardo sui tempi e sugli eventi, ma in realtà non è così. Arriva sempre al momento giusto, per dimostrare la sua potenza e la sua Grandezza! La nascita di Gesù si è verificata "nella pienezza del tempo", cioè al momento giusto come Lui aveva preparato prima che esistesse ogni cosa! (Galati 4:4). Gesù: è il primogenito di tutto. Nel v.7 è scritto: “Ed ella diede alla luce il suo figlio primogenito”. Il termine descritto nel Vangelo di “Primogenito”, Prototokos è interpretato in vari modi:
  • Egli è chiamato primogenito per indicare che Maria ha avuto soltanto Gesù:
  • Il riferimento al primogenito commenta Luca 2:23-24, in riferimento che il primogenito doveva essere consacrato a Dio (Esodo 13:2; Numeri 3:13; 8:17).
  • Il termine equivale a chiamare Gesù "unigenito".
  • Al diritto di Gesù di ereditare il trono di Davide come il primo figlio della sua famiglia.
  • Il diritto di Gesù come il figlio primogenito di avere i vantaggi dell'ereditarietà che proviene da Davide.
  • Primogenito si può riferire a primo come rango, importanza, superiorità (Romani 8:29; Colossesi 1:15,18; Ebrei 1: 6; Apocalisse 1: 5).
Nel v. 7 leggiamo ancora: “Lo fasciò, e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo”. Maria si assume la sua responsabilità e cura come madre di fasciare il bambino com’era in uso tra gli ebrei, ed era considerata una prassi normale (Ezechiele 16:4). Le fasce usate da Maria erano lunghe strisce di stoffa che venivano avvolte ripetutamente attorno al bambino per costringerli a tenere gli arti diritti, oppure, venivano impiegate per mantenere il bambino caldo e dargli un senso di sicurezza. Questi panni si pensava che proteggessero i suoi organi interni. Nonostante le popolari cartoline di Natale, l’ambiente dove nacque il Re dei giudei doveva essere buio, sporco e puzzolente. Ma Giuseppe e Maria non avevano altra scelta, dove andare? Questo è il luogo dove il Re dei Re, il Figlio di Dio fatto carne è venuto nel mondo, per redimerci dai nostri miseri peccati! La “mangiatoia” (phatnē) può significare una specie di vasca, o scatola rettangolare in una stalla, o granaio progettata per contenere alimenti, ad esempio il fieno, per gli animali dove mangiavano, ma può anche significare l'intero ambiente di una stalla, dove Gesù fu deposto per l’adorazione dei pastori e dei magi. Il motivo fondamentale per cui fu messo in una mangiatoia era perché non vi era posto per loro in albergo, perché, nessuno li ha voluti accogliere. “Che non c'era posto nell'albergo era il simbolo di ciò che stava per accadere a Gesù in età adulta. L'unico posto dove c'era spazio per lui era su una croce”. Non è sorprendente che non ci fosse posto per loro nell'albergo considerando il numero dei viaggiatori pervenuti a Betlemme che affollavano diverse città vicine durante il tempo di questo censimento.  Il termine, “Albergo” (katalumati) si può riferire a una stanza di locanda, oppure a una specie di caravanserraglio, o piuttosto, un edificio costituito in genere da un muro che racchiude un ampio cortile e un porticato, che veniva usato per la sosta delle carovane durante i pellegrinaggi e per la Pasqua.  Molto più probabile “albergo” si può riferire a una stanza in una casa privata, la stessa parola è usata per la stanza, dove Gesù mangerà la Pasqua con i discepoli (Luca 22:11). Per indicare un albergo vero e proprio Luca usa un altro termine nel caso del buon samaritano che ha soccorso e portato in una locanda (pandocheion) colui che fu malmenato e derubato durante il suo viaggio verso Gerusalemme (Luca 10:34).
In conclusione, possiamo definire che, Gesù nostro Signore è la vera pace. Luca menziona Cesare Augusto, quindi la Pax Augustea, o Pax Augusta nel tempo della nascita di Gesù per ricordare e proclamare chi è veramente Colui che porta la vera pace nel mondo: Il vero imperatore della pace è Gesù, non Ottaviano. A causa del peccato la pace è stata persa, naufragata, ma grazie a Gesù, il Principe della pace (Isaia 9:6) possiamo avere pace con Dio (Romani 5:1-2; Colossesi 1:20; Efesini 2:14, 17), la pace tra le persone (Marco 9:50; 1 Corinzi 7:15; Efesini 2: 14-17; 4:3); la pace interiore (Romani 8:6; 15:13; Galati 5:22; Filippesi 4:7; Colossesi 3:15; Giovanni 14:27).
In secondo luogo, Dio controlla la storia del mondo e dell’intera umanità. Il decreto voluto dall’imperatore Augusto uscì in perfetto tempismo di Dio e secondo il Suo piano perfetto per portare suo Figlio nel mondo. Poiché Dio è il Signore di tutta la terra, non c'è potere che non sia sotto la sua autorità (Proverbi 21:1), i poteri forti sono sotto il controllo di Dio e non nell’uomo! Come il Re Nabucodonosor e Ciro, Cesare Augusto è stato uno strumento inconsapevole di Dio per realizzare il Suo piano di redenzione, il cui decreto porta al compimento la profezia di Michea 5:1-2, riguardo al Messia che sarebbe nato a Betlemme, fatta circa 700 anni prima della sua nascita, (Matteo 2:5-6; Giovanni 7:42). Gli uomini potenti pensano che loro dirigano gli eventi, ma non è così! In ogni cosa c’è lo zampino di Dio. Egli ha usato l'autorità di un uomo che credeva e credevano di essere un dio per portare sulla scena, il vero ed autentico Figlio di Dio. Usa anche i pagani vale a dire, adoratori di idoli inanimati e senza vita, per portare a buon fine i suoi piani salvifici! Dio Onnipotente opera per mezzo di ogni genere di persona per realizzare i suoi progetti! Dio stava usando questo il decreto di un imperatore pagano per la realizzazione il proprio progetto riguardo l’incarnazione, il ministero e l’opera di Gesù Cristo per la salvezza del suo popolo! Egli è all’opera nella storia degli uomini per realizzare la Sua storia, i Suoi progetti, i suoi piani che nessuna creatura potrà mai scalfire o ridicolizzare, perché è il creatore di tutto ciò che sussiste (Romani 8:28; Efesini 1:11). Dio controlla la storia, è il Signore della storia! Quindi non siamo nelle mani degli uomini, ma di Dio! Questo è un grande conforto! Una grandissima consolazione. Dio che è nostro Padre in tutto, guida la nostra vita, come per Cesare Augusto, guidava l’impero di Roma, come per Giuseppe e Maria, accudivano il Cristo Figlio di Dio! Inoltre, Dio, nella sua saggezza imperscrutabile, ha usato Cesare Augusto per l'avanzamento del Regno di Dio. Grazie alla Pax Romana la religione cristiana, in un tempo molto breve, si diffuse in tutto il Mediterraneo e nel mondo intero, e sulla Chiesa fondata da Cristo, le forze degli inferi non prevarranno. Questo passo ci ricorda anche: la piena obbedienza di Giuseppe e Maria all’autorità di Roma, e ci ricorda la sottomissione di Giuseppe e Maria alle autorità che tutti i cristiani devono avere perché le autorità sono preposte da Dio (Romani 13:1-2). Dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio (Matteo 22:21). Ma Gesù vuole un posto nel tuo cuore di ogni uomo. Però quando è venuto al mondo nel freddo e nel gelo, non c'era posto per loro nell'albergo! Era sovraffollato per il censimento, ma anche per il menefreghismo della gente, prendevano solo coloro che potevano offrigli del denaro. Molti uomini sparsi sulla terra oggi non hanno posto per Gesù nei loro cuori! Sono impegnati a venerare il dio denaro, lussuria, e vita mondana, questo perché i loro cuori che dovrebbero essere di carne, sono di pietra, sovraffollati di pensieri di ricchezza, di onore, di peccati di ogni tipo, di prestigio, di affari, pieni di sé stessi, del proprio orgoglio, del proprio egoismo, del proprio io! Molte persone hanno chiuso e chiudono le porte del proprio cuore a Gesù, e pensano come derubare il povero, e come prendere beni che non gli spettano (Giovanni 1:11-12). Gesù ha mostrato la sua grazia e la sua potenza: era ricco e si è fatto povero affinché noi potessimo diventare ricchi, nella Fede e nella Carità verso il prossimo (2 Corinzi 8:9). Questo è un principio importante da seguire: bisogna dimostrare amore, sacrificio per gli altri, rinuncia, servizio, verso Dio e della Sua Chiesa, ma principalmente essere m misericordiosi con i poveri e gli oppressi, (Filippesi 2:5-11). Gesù nacque in umili condizioni per dimostrarci che Dio, da ricco può diventare povero, eppure, oggi giorno in questo III Millennio, troviamo una contraddizione verso il Natale, caratterizzato soltanto dal materialismo, dall’appariscenza e dallo sfarzo. Oggi molti pensano che i valori fondamentali della vita sia nell’avere, che si misura nelle ricchezze materiali, come: vestiti firmati, lauree, successo, eccetera. Gesù ci insegna che i veri valori della vita non sono questi! Non dobbiamo ricercare le comodità. Come Discepoli e Apostoli di Gesù Cristo non dobbiamo ricercare le comodità di questo mondo, ma le comodità del Regno di Dio. Fin dalla nascita Gesù non ebbe una vita comoda, in seguito dirà cosa significa essere suoi Discepoli e Apostoli. In Luca 9:57-58 leggiamo: “Mentre camminavano per la via, qualcuno gli disse: ‘Io ti seguirò dovunque andrai’. E Gesù gli rispose: ‘Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo”. Servire il Signore significa seguire con Fede e animo contrito un destino senza comodità come quello di Gesù durante il suo ministero apostolico. Il Figlio dell’uomo (Gesù) sperimenta il rifiuto della gente ed è senza fissa dimora, e i suoi Apostoli devono essere preparati ad vivere ed affrontare la stessa esperienza insegnata dal Maestro. Servire il Signore, significa essere disposti a rinunciare alle comodità e avere la prontezza incondizionata di seguire Gesù ovunque Lui voglia, senza ma e ne però, ma dall’ascolta della sua parola di vita, con rettitudine e obbedienza figliare, anche a costo della propria vita. Un altro elemento fondamentale che riguarda la nascita di Gesù a Betlemme, si basa sulla tradizione cristiana del Presepe. Come dicevamo è una tradizione natalizia, che consiste in una rappresentazione figurata della nascita di Gesù risalente all’epoca medioevale. È nata nel nostro Paese e poi si diffuse in tutto il mondo cattolico. Le principali fonti del presepe sono evidenziate nei Vangeli di Matteo e di Luca che, come abbiamo già visto, descrivono gli eventi della nascita di Gesù a Betlemme, una piccola località della Giudea, ma famosa per aver dato i natali al re Davide. Numerosi elementi del presepe, però, traggono spunto dai Vangeli apocrifi, soprattutto dal protovangelo di Giacomo. L’origine etimologica del termine “presepe” ha dato vita a vari dibattiti nel corso del tempo e della storia. Per la maggior parte degli esegeti, deriverebbe dal latino “praesepe”, che vuol dire sia mangiatoia, sia recinto dove erano custoditi ovini e caprini. Un’altra ricostruzione si riferisce al verbo latino “praesepire”, che significa recingere. È curioso osservare che il termine “presepe”, oltre che in Italia, è utilizzato in Ungheria, perché arrivò a Napoli nel XIV secolo, quando un nobile della casata degli Angioini, diventò sovrano di quelle regioni. Invece, nelle prime vulgate evangeliche medioevali tale rappresentazione era indicata con il termine latino “cripia”, traducibile in italiano “greppia”, con poche varianti negli altri idiomi europei: creche, in francese, crib, in inglese, krippe, in tedesco. Gli studiosi, tuttavia, fanno risalire l’evoluzione storica del presepe alle prime rappresentazioni artistiche della sacra famiglia, come la raffigurazione della Vergine con Gesù nelle catacombe di Santa Priscilla sulla via Salaria a Roma, opera di un anonimo artista del III secolo d.C. E nell’Umanesimo del quindicesimo secolo fiorirono i dipinti dei grandi maestri, come l’Adorazione dei Magi del Botticelli esposto agli Uffizi, Firenze, la Natività della Cappella degli Scrovegni a Padova, per mano di Giotto, la Natività di Lippi che si trova al Museo Diocesano di Milano etc. Il passo dalla raffigurazione pittorica a quella tridimensionale fu breve, anche se il primo ad attuarla fu San Francesco d’Assisi nel 1223 a Greccio, dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte di Papa Onorio. San Francesco aveva compiuto un viaggio in Palestina ed era rimasto colpito dalla visita a Betlemme. Nella grotta di Greccio si celebrò la Messa con un altare posticcio posto sopra una mangiatoia, con la presenza dei due animali della tradizione, il bue e l’asinello, e tutti i personaggi decritti dai Vangeli; la Sacra famiglia, i Pastori, i Maggi, e gli Angeli del cielo. Il presepe, comunque, come rappresentazione plastica, iniziò a diffondersi nelle regioni dell’Italia centrale nel Quattrocento, entrando nel regno di Napoli il secolo successivo. Il grande salto fu compiuto nel Settecento, con le grandi scuole genovese, bolognese, ma soprattutto napoletana. In questo secolo, nella città di Napoli, allora in piena fioritura culturale, al punto da colpire Stendhal che l’annoverò tra i tre più vivaci centri europei, insieme a Parigi e a Londra, i nobili scatenarono una vera e propria competizione, su chi potesse vantare il presepe più ricco e sontuoso. Nella seconda metà del diciottesimo secolo, si diffuse anche l’abitudine di allestire il presepe nelle chiese durante le festività natalizie. Nei secoli successivi, il presepe diventò un simbolo per tutti, arrivando anche nelle case borghesi e popolari, nonché, rappresentando un’icona di sacra devozione. Il bambino che Maria presenta avvolto in fasce e depone nel presepio, apre le braccia ad accogliere chi guarda e a dire già ora, appena nato, l’offerta di sé per la salvezza dell’intera umanità, depredata dal diavolo e dal suo inferno. È il mistero della manifestazione del Signore: Dio che si manifesta pienamente in Gesù, in un bambino, nel nostro linguaggio comune, da poter capire tutto il suo mistero. È il dono infinito di Dio alla nostra esistenza. Sembra un sogno vedere Dio in un bambino piccolo e tenero, comprensibile, visibile e palpabile. Dio sa fare i doni a coloro che se li meritano. Ci parla nella nostra lingua, si manifesta e ci salva dal peccato e dalla morte. Il gesto del Bambino raffigurato con le braccia aperte in forma di croce, esattamente come nell’icona centrale della Crocifissione, ripete e insieme anticipa il mistero della Pasqua (Gv 12,24-32). È un gesto molto significativo proprio in rapporto alla spiritualità del Cuore di Gesù donato a noi uomini. Tutte le narrazioni dell’infanzia, come ben sappiamo, sono narrate in prospettiva pasquale, perché come dice il Salmo 40 (7-9) e poi lo esplicita la Lettera agli Ebrei (10,5-7), “entrando nel mondo Cristo disse: – Ecco io vengo, come è scritto nel Salmo, a compiere la tua volontà”. E l’autore della Lettera commenta che Cristo dice questo, si dispone a questo, per sostituire il vecchio genere di sacrifici, incapaci di salvare, con un nuovo sacrificio, l’offerta di sé stesso per la salvezza dell’umanità corrotta dal peccato. A questo “Ecce venio” di Gesù, fa eco “Ecce ancilla” di Maria, che è una componente, indica un contenuto fondamentale nella spiritualità del Cuore di Gesù, perché l’aver creduto all’ “Ecce venio” di Gesù si esprime in questa risposta dell’“Ecce ancilla” di Maria durante l’Annunciazione. Gesù, entrando nel modo, disse “Ecce venio”; coloro che hanno creduto e rispondono dicono “Ecce venio”; come il suo entrare nel mondo in questo modo, significa l’offerta della propria vita, di tutto se stesso, così anche la risposta del credente indica questa consegna totale, e non ci sarebbe possibilità vera di credere e di dare una risposta seria a questo “Ecce venio”, se non in questo modo. Come per Gesù la strada, il modo, è l’unica possibilità di vivere il suo “Ecce venio” è di fare la volontà di Dio, seguire le indicazioni del Padre fino in fondo, così per noi seguire le indicazioni del Padre diventa il sacrificio di salvezza. Quando noi accogliamo la volontà di Dio espressa nei suoi comandamenti, noi diventiamo collaboratori di Dio per la salvezza dell’umanità. Ciò avviene, perché la volontà di Dio che ci riguarda e che noi purtroppo spesso siamo portati a depauperarla restringendola sulle cose che dobbiamo fare, è che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati (1Tim 2, 4), è il suo progetto che guida tutta la Storia di Salvezza dall’inizio fino alla fine. Allora chi fa la sua volontà dicendogli di sì, collabora alla sua opera di salvezza. E allora che comprendiamo come queste tematiche ci introducono nel vero significato della missione e dell’apostolato. Maria, che ha presentato Gesù ai pastori e ai magi, lo presenta anche a noi che guardiamo. Ella è la donna associata all’ “Ecce venio” del suo bambino, è la donna che ha detto di SI e rimane nel suo SI e lo vive con tutta se stessa fino al SI supremo stando ai piedi della croce del Figlio. Dietro il Bambino e Maria c’è la figura di Giuseppe avvolto nel suo silenzio. È l’uomo giusto, testimone e custode, nella posizione umile e grande di colui che ha creduto e, nel silenzio, è diventato pure lui protagonista del mistero della salvezza. Nella narrazione della spiritualità del Cuore di Gesù, Giuseppe emerge come una stupenda figura di uomo credente che, posto improvvisamente di fronte ad una imprevedibile chiamata di Dio, è combattuto fra le giuste esigenze umane e la richiesta pressante di Dio. In questa tensione, egli fa un salto nella propria fede e pronuncia anch’egli il suo “sì”, consegnandosi a Dio che lo chiama per un compito inaudito e in un modo che non può immaginare e che richiede tutta la sua fede, tutto il suo coraggio e tutto il suo amore. Per lungo tempo la sua figura è rimasta in ombra. Noi abbiamo imparato a chiamare Giuseppe con una parola assolutamente insufficiente: padre putativo di Gesù. Ma in realtà Gesù divenne uomo in casa di Giuseppe, la sua umanità è segnata in profondità dalla presenza di questo “uomo giusto”. È più logico, per tanto, pensarlo come il custode del mistero nell’esercizio di una paternità spirituale nei riguardi di Gesù, che è estremamente concreta. Noi sappiamo, infatti, come la maternità e la paternità dei genitori non si esaurisce nella generazione biologica, ma raggiunge la sua pienezza solo dopo, nel come la funzione della paternità e della maternità si realizza in tutto ciò che è chiesto per la formazione integrale del figlio. Sappiamo anche come questa paternità e maternità di ordine spirituale non è solo dei coniugi, ma è di ogni persona e di ogni cristiano che si prende cura degli altri. Giuseppe va visto in questa prospettiva e molto di più. In effetti, i Vangeli di Luca e di Giovanni lo chiamano «padre di Gesù». Giuseppe, in realtà, anche se, come confessa la Chiesa, non è padre naturale di Gesù, è stato però padre di Gesù secondo la Legge di Mosè, avendolo riconosciuto come figlio suo e di Maria, sua sposa. Giuseppe, «il padre di Gesù», è quel padre che ha vegliato su di Lui nel grembo della madre, che è stato testimone della sua nascita nella grotta di Betlemme (Lc 2, 16), che lo ha circonciso e gli ha dato il nome secondo la Legge di Mosè (Lc 2, 21), che lo ha inserito nella discendenza davidica (Mt 1,20), che lo ha riscattato quale primogenito (Lc 2, 22-24), che lo ha fatto crescere procurandogli con il suo lavoro il cibo, il vestito, la casa, e lo ha inserito nella storia. A partire dalla presenza di Gesù nel seno di Maria fino al giorno in cui se ne andò da casa rivendicando il suo dover «stare presso il Padre» (Lc 2, 49), Gesù ha trovato in Giuseppe un padre che gli ha permesso e lo ha aiutato «a crescere in statura e sapienza, in età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2, 40.52. È, per tanto, un dato evangelico non di poco conto che Gesù non ha avuto un padre prima del concepimento, ma dopo la sua nascita. Negli anni di Nazareth Maria e Giuseppe appaiono come «i suoi genitori» (Lc 2, 43): Gesù chiama Giuseppe Abba, «papà», e Giuseppe lo chiama «figlio mio». In questa relazione, Giuseppe è il padre che a poco a poco ha rivelato a Gesù l’obbedienza a Dio e la forza dell’amore. L’amore di Giuseppe influì sull’amore filiale di Gesù e certamente le figure di Giuseppe e Maria non sono state estranee alla decisione di Gesù di farsi eunuco in vista del regno di Dio (Mt 19, 12). L’umanità di Gesù è certamente rimasta impregnata in profondità dalla figura di Giuseppe, dalle sue parole, dai suoi sguardi e dal suo silenzio, e così Giuseppe, che non ha generato Gesù secondo la carne, l’ha generato come uomo e l’ha fatto passare dalla relazione di paternità umana a quella di Dio. Sì, Gesù, «il figlio del carpentiere» (Mt 13, 55), è in verità il Verbo di Dio fatto carne che ha abitato fra noi: questo è il miracolo a cui Giuseppe ha acconsentito, e acconsentendo si è realizzato penienamente. Dopo l’episodio del ritrovamento di Gesù al Tempio dove insegnava e interrogava i Dottori della Legge, l’evangelista annota che i suoi genitori non compresero le sue parole (Lc 2, 50) e lo riportarono a Nazareth, dove visse sottomesso dai suoi genitori. Non sappiamo quanto tempo Gesù trascorse a Nazareth dopo i dodici anni. Comunque, Giuseppe svolge il suo compito pienamente e per lui giunge l’ora di eclissarsi di fronte alla presenza del Padre di Gesù, davanti a Dio. Ormai, adempiuta la sua missione, egli scompare, ritorna nella Casa del Padre. Non sappiamo né come né quando sia morto, ma l’unica morte che conta è quella che egli ha dato a sé stesso con la piena obbedienza con cui ha accolto Maria e Gesù in seguito alle parole del Signore ricevute dall’Angelo in sogno. Così, prima che si completasse il mistero di suo Figlio, e prima ancora che Gesù consumasse la sua missione nella croce, Giuseppe aveva già preso su di sé il peso di un destino e di una missione simile a quella di Gesù. Il segreto della consegna eroica di Giuseppe al piano di Dio su di lui ci viene rivelato da Matteo, quando ce lo presenta come “uomo giusto” (1,19) che cercava sinceramente di conoscere e compiere la volontà di Dio; e come uomo dei “sogni” (1,20; 2,13; 2,219-20), definito uomo di preghiera, e contemplativo. La spiegazione di questi sogni la troviamo già nella teologia del cristianesimo primitivo: nella meditazione, ovverosia, in “sogno”, realtà così profonda in cui la vita raggiunge gli ultimi confini dell’universo, può divenire sensibile e visibile l’angelo nunziante, il destino eterno dello stesso uomo, la sua vocazione nel servire il signore. Mentre meditava nel silenzio della notte, Giuseppe ha potuto penetrare nel destino di Maria. tormentato dal dubbio e dall’incertezza, mettendosi in profonda preghiera, ha potuto presentire il mistero dell’incarnazione del verbo di dio fatto carne. È stato allora che accettò di buon animo il messaggio dell’angelo, perché ha riscontrato in Dio la vera concretezza del messaggio e la sua attuazione per il bene del popolo santo di Dio. Questa consegna di Giuseppe profondamente segnata dal travaglio della ricerca del piano di Dio su di lui e dalla conseguente rinuncia a sé stesso, è descritta da sant’Efrem il Siro. Egli negli Inni della natività presenta Giuseppe come “il giusto in pena che l’angelo tranquillizzò” (Mt 1,19-21) e nell’Inno V mette sulle sue labbra queste parole rivolte a Gesù: «Chi mi ha dato/che tu diventassi mio figlio, /o figlio dell’Altissimo? /Mi ero indignato con la madre tua/e volevo licenziarla in secreto. /Non sapevo che nel suo utero/c’era un gran tesoro, /che avrebbe arricchito in un istante/la mia povertà» (strofa 7). L’espressione “Mi ero indignato con la madre tua” evoca probabilmente Mt 1,19, tuttavia la descrizione dell’indignazione di Giuseppe non ha riscontri diretti nel Vangelo, che lascia anzi la porta aperta a varie interpretazioni del dramma interiore del “giusto”, tra cui quella che gli attribuisce l’intenzione di ritirarsi di fronte alla grandezza di un mistero che lo supera. Ma c’è un Inno antichissimo, attribuito a Efrem il Siro, in cui si descrive in un modo molto commovente, profondo e concreto come Giuseppe è arrivato a capire il mistero della su sposa e ha detto il suo “sì” coraggioso e deciso al volere di Dio su di lui. È un lungo inno impostato intorno al dialogo tra Giuseppe e Maria. Quando Giuseppe si accorge che la sua sposa è incinta, è da immaginare quale sconcerto, quali interrogativi siano sorti nel suo animo. Maria certamente fu interrogata da lui, e lei si è spiegata, gli ha dato la spiegazione di che cosa era successo. Ma possiamo immaginare come per Giuseppe sia stato difficile capire, quando Maria si spiega nei termini che emergono dal Vangelo. Era già stato difficile per Maria capire le parole dell’angelo, ancor più lo è per Giuseppe. Per lui è una spiegazione improbabile, quasi impossibile ad una concreta compressione. L’Inno ricordato interpreta così la prima reazione di Giuseppe, che dice in tono concitato: Sono sbalordito di ciò che mi dici! Come posso dar credito a queste tue parole? Le vergini semplicemente non rimangono incinte senza aver rapporti o sposarsi, e tu che cosa mi vieni a raccontare? Giuseppe sta vivendo in quel momento della sua vita una specie di irata incredulità, dice l’Inno; però rimane sempre più colpito dalla pazienza di Maria, dal fatto che lei non rimane turbata, rimane nella pace e continua a parlare con Giuseppe, a spiegargli come stanno le cose. Colpito da quest’atteggiamento di Maria, egli comincia a fare una mezza concessione, dice il testo, ammette cioè che potrebbe esserci qualcosa di vero, potrebbe essere anche vero quello che sta dicendo la sua sposa. Però rimane di fronte ad un evento troppo più grande delle sue possibilità di comprensione ed inaccettabile e quindi dice: Ci sono qui due possibilità ed entrambe mi sconcertano, non riesco ad accettarle: se ciò che dici è vero, è troppo spaventoso per me: come posso portare il peso di un mistero così grande? Ma se ciò che dici non è vero, è un dolore troppo grande per me: come vorrei poter sfuggire ad entrambe queste risposte! Sembra che Giuseppe non riesca ad entrare nell’evento e a capire. Allora Maria gli replica: Bene! Ora darò sfogo alle mie parole e mi rivolgerò a mio figlio nascosto nel mio grembo, perché sia Lui a farti capire; non solo, ma ti faccia capire anche che tu devi rimanere con me. Si conclude così questo dialogo che ha quest’aggiunta: Giuseppe dormì e l’Angelo arrivò, rivelandogli come il mistero aveva avuto luogo, ed è ciò che abbiamo letto in Matteo e commentato. Giuseppe si alzò e si inginocchiò in venerazione davanti a Maria, piena di una meraviglia che non mentisce. Un aspetto molto importante che viene sottolineato, è che Giuseppe arriva ad ammettere una possibilità del genere solo in un secondo momento attraverso il suo dubbio, la sua tribolazione, il suo interrogarsi, la sua sofferenza interiore, il dialogo con Maria; soltanto allora, una volta che si è come predisposto attraverso il crogiolo di questa sofferenza, è accaduto il suo aprirsi al mistero: Dio adesso può intervenire e dirgli la parola che chiarisce tutto. Non avrebbe potuto farlo prima, ma ogni cosa era programmata sistematicamente. Questa è una legge costante nella vita spirituale. Anche se noi abbiamo paura della lotta, della fatica, della tribolazione, del dubbio e dell’oscurità, per arrivare al momento conclusivo dell’accoglienza del dono di Dio, perché possa entrare nella nostra vita, bisogna accettare un camino di preparazione che inevitabilmente è anche di tribolazione fisica e spirituale. La prova di ciò la portiamo dentro di noi stessi; se guardiamo nella nostra esperienza, ci accorgiamo che, quando qualcosa d’importante accade nella vostra vita spirituale, è perché un lungo cammino è intervenuto prima. Le cose di Dio non accadono mai all’improvviso. Dio non interviene con logiche umane o di potenza, ma rispetta la nostra libertà, il nostro libero arbitrio, quindi, l’esigenza è intrinseca al nostro essere creature, fatte in modo da poter entrare negli eventi della vita solo un po' alla volta, facendo uso delle nostre facoltà di intendere e di volere. La logica dei piccoli passi nella vita spirituale è fondamentale, per capire una parte del mistero di dio che ci circonda. La nostra preghiera allora si arricchisce, trova forma in noi stessi, contemplando anche questa figura di Giuseppe, l’uomo del silenzio, giusto, del sì, il custode del mistero di Dio fatto carne, ma non da fuori come se fosse un semplice funzionario, ma coinvolto profondamente, consegnato con tutto il suo essere a Gesù e a Maria. Le parole di Maria a Giuseppe riportate nell’inno: Lo dirò al mio bambino che ti faccia capire e ti faccia anche capire che tu devi rimanere con me, ci fanno intuire anche quale rapporto di affettività, di amore legava lui a Maria e Maria a lui. Quest’aspetto ci dà motivo di implorare da lui, dalla sua intercessione e da quella di Maria, che ci sia dato a noi consacrati di crescere nella verginità del cuore, di imparare ad amare senza dare mai per scontato di esserci arrivati; di imparare che l’amore è stampato nella nostra carne mortale concreta e va costantemente orientato al sì pronunciato da chi per primo, lo ha fatto. L’amore nella verginità, difatti, coinvolge l’affettività in tutta la sua dimensione e profondità, e non può essere ridotto a qualche cosa di spiritualistico, di evanescente, o contenuto semplicemente nelle prestazioni che offriamo agli altri, che a volte sono proprio quelle che ci servono per tenere gli altri fuori della nostra vita. Creature come Giuseppe e Maria, i più insigni tra i nostri padri e madri nella fede, sono modelli, che ci fanno vedere che è possibile arrivare alla verginità del cuore, ad un amore totale nella verginità, un amore come quello di Maria e di Giuseppe. Manteniamo lo sguardo fisso sulla Madre e suo Figlio che si offrono per noi; e poi Giuseppe, attento alla voce divina, è il primo ad entrare nel mistero del Cuore di Gesù e del Cuore della Madre di Dio e Madre nostra e ora ci fa da guida per entrare in questi Santuari della salvezza; lì a terra ci sono i nostri doni, risposta al dono della vocazione con la stessa generosità dei tre Magi; il lembo del mantello dei Magi che partono, indica la sollecitudine e la gioia della condivisione con tutti della nostra esperienza di salvezza in Cristo Gesù nostro Signore.

CONCLUSIONE

Per superbia lucifero l’Angelo più luminoso del Paradiso da creatura volle farsi Dio, per un atto di orgoglio, superbia nei confronti di Gesù, Figlio Unigenito del Padre. Un terzo di angeli del cielo si lasciò ingannare da questa sua falsità e anche loro disobbedirono, e da luce divennero tenebra e furono precipitati nelle tenebre eterne dell’inferno, dove vi è pianto e stridore di denti per l’eternità. Avendo perso lui la luce, per stoltezza, insipienza, grande alterigia, per invidia tenta ogni uomo affinché anche lui la perda, e vada con lui all’inferno: “Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono” (Sap 2,23-24). Oggi satana ha scatenato una delle sue più sanguinose battaglie non contro l’uomo che è già in suo potere, ma contro la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica non può prevalere la sua vittoria. Sembra vivere quanto rivela il Libro dell’Apocalisse ci rivela: “Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni” (Ap 12,1-6). Un terzo delle stelle del cielo non sono solo gli angeli di Dio, sono anche gli angeli delle Chiese. Solo il Padre sa fino a quando questa battaglia così cruenta durerà. A noi uomini la responsabilità di non cadere nelle falsità di satana e nelle sue menzogne, tentazioni contro Cristo, contro Dio, contro la stessa Chiesa. Oggi sono gli stessi figli della Chiesa che si proclamano dèi e salvatori. Dio, il Padre celeste, ha dato ad ogni uomo una sola via per elevarsi a dignità divina, per divenire partecipe della natura divina, per essere vero figlio di Dio. Questa via è il suo Verbo fattosi carne. Il Verbo si è fatto vero uomo, perché in Lui l’uomo divenisse Dio. Fosse divinizzato, elevato a dignità altissima. La via di satana è di superbia. La via iniziata dal Verbo è di umiltà, obbedienza. Il Verbo incarnato si fece obbediente al Padre fino alla morte e morte di croce e fu innanzato a Signore del cielo e della terra, Giudice dei vivi e dei morti. Chi vuole seguire Dio ha questa sola via: umiliarsi in Cristo fino alla morte di croce, divenire con Lui un solo sacrificio e olocausto di obbedienza. Ma satana non vuole questa via. Lui vuole condurci sulla via della superbia con ogni tentazione, a separarsi dalla purissima verità di Cristo Gesù, consegnandosi all’idolatria e all’immoralità, proclamando Dio ogni uomo.
“Vi annunzio una grande gioia: oggi vi è nato un Salvatore”. Ecco la buona nuova, quella che è venuta a cambiare la storia dell’umanità riempiendola di luce e di senso e aprendola al suo vero futuro. All'umanità affondata nel sonno e nel freddo appare la luce di Dio ed è subito l’annunzio del dono della gioia («vi annunzio una grande gioia»), è l’ingresso della pace nel mondo («pace in terra agli uomini che Dio ama»), ma è soprattutto la nascita di un bambino. È in questo bimbo la radice della speranza perché i suoi nomi sono straordinari: «Salvatore, Cristo, Signore». E i primi che hanno orecchi aperti per ascoltare questa «buona notizia», questo Vangelo, i primi che hanno occhi puri per vedere in quel bimbo, nato come un nomade, la sorgente della nostra salvezza, sono i pastori, gli ultimi della terra. Essi cercano e trovano, divenendo missionari del Cristo. Infatti - annota più avanti Luca - «tutti quelli che udirono si stupirono delle cose che i pastori dicevano». Per tutti quelli che sono semplici e puri come i pastori si apre, così, un’esistenza diversa, una vera e propria nascita interiore. In questa prospettiva il Natale richiede di essere spogliato da tutte quelle cose che lo convertono in un evento di mercato per essere riscoperto come la grande nascita. Nascita del Figlio di Dio fatto carne all’interno della nostra storia e delle nostre case; nascita di ogni suo fratello nella carne; nascita di ogni credente alla luce, alla gioia, alla pace, ad essere figlio di Dio. La nascita di Cristo è l’esaltazione della grazia, «della bontà di Dio e del suo amore per gli uomini», come scrive Paolo a Tito. Nella mangiatoia di Betlemme inizia la nostra salvezza che si attuerà in pienezza nel sepolcro di Gerusalemme. Per questo la liturgia orientale chiama questa solennità natalizia «la Pasqua del Natale». La luce di questa notte è già un bagliore di quella del mattino di Pasqua, il giorno della redenzione. Allora diventa più comprensibile perché la nascita di questo bimbo riempie il mondo di luce, che è gioia e che porta pace, così come aveva annunciato Isaia e così come lo vide Luca realizzarsi nel natale di Gesù: se Dio ha tanto amato l’uomo da dare il suo unico figlio per lui, se il Figlio ha tanto amato l’uomo da dare la propria vita perché avesse vita in abbondanza, anche noi dobbiamo amare l’uomo e difendere fino in fondo la sua dignità, là specialmente dove questa viene oltraggiata; i suoi diritti, tutti i suoi diritti, là specialmente dove questi vengono ignorati o calpestati; la sua vocazione e missione, là specialmente dove la si vuol ridurre a quella di un perfetto consumatore, di uno spettatore o di un agnostico installato perfettamente nella sua immanenza senza prospettive di futuro. Se Dio ha voluto che la nascita di questo bambino e il suo annuncio fossero accompagnati da un esercito celeste che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,13b-14), pure noi dobbiamo essere costruttori di pace, di riconciliazione e di giustizia e non fabbricanti di armi o di muri che continuano a stroncare vite e separare i popoli. Se Dio ha voluto presentare la nascita di questo bambino come “l’annunzio di una grande gioia” per tutti, dobbiamo diventare entusiasti e convinti testimoni ed messaggeri della ‘gioia del Vangelo’ e non lasciarci rubare questo dono immenso che ci fa essere attenti a scoprire quanto c’è di buono, di vero e di bello in noi, in quelli che vivono accanto a noi, nei nostri ambienti, nella Chiesa, nel mondo. È la forma di ringraziare Dio per i suoi doni. È la forma di riempire di felicità il mondo. È la forma di imparare a vivere per gli altri. È quanto don Bosco additò ai suoi ragazzi come strada di santificazione. Tutto ciò richiede di noi il recupero dell’infanzia spirituale, quella che ci porta a essere ripieni di stupore dinanzi al miracolo della vita, colmi di gratitudine davanti alla novità, pieni di gioia di fronte alla speranza. Ecco tutto quanto rappresenta il Bambino Gesù: il nuovo uomo, la nuova umanità, che fa di ogni persona figli e figlie di Dio, che con essa crea comunione e comunità, che costruisce la pace, che si dona agli altri e porta il mondo alla sua totalità. Non possiamo dimenticare che questo bambino troverà la sua pienezza sulla morte in croce e nella sua risurrezione, come espressione suprema dell’amore. 2. E il Verbo si fece carne Mentre nella Messa della notte del Natale si evidenzia, come dev’essere, l’evento della nascita di Gesù, appunto perché si tratta di un avvenimento, sostanza della nostra fede e della nostra speranza, e non di un mito, o di un sogno o di un desiderio, o di una ideologia, l’eucaristia del giorno, attraverso la Parola, ci invita 3 ad approfondire il mistero celebrato con una meditazione ricchissima sull’evento, passando dalla gioia alla contemplazione. Lo “stupore” del mistero della nascita del Signore che ci trasmettono i testi biblici, offerti alla nostra meditazione, è come riassunto in quel versetto del Vangelo di Giovanni che esprime in forma magistrale l’immenso ed assoluto ‘sì’ di Dio all’Uomo: «Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi» (Gv 1,14). Vi si affermano due cose, egualmente stupefacenti perché sembrano contraddittorie fra di loro: la prima è che il “Verbo”, cioè il Figlio stesso di Dio, “sua perfetta immagine e somiglianza”, si è “fatto carne” vale a dire debolezza umana, fragilità, essere deperibile e mortale; la seconda è che, proprio per questo suo farsi uomo, egli ha voluto prendere “dimora”, cioè domicilio, sua casa, in mezzo agli uomini, per dimostrare loro che non è soltanto “Emmanuel” “Dio-con noi” ma “Uomo-come-noi”, e che quindi conosce dall’interno la loro vicenda umana, i loro problemi, le loro sofferenze, le loro aspirazioni di bene e anche i fermenti di male e le paure che lacerano i loro cuori. Nel mistero dell’incarnazione che celebriamo in queste Feste, dobbiamo trovare la chiave della soluzione per le sfide gigantesche che stiamo vivendo, non solo e non tanto a livello economico e finanziario ma soprattutto antropologico e sociale, come la seppe trovare la prima comunità cristiana, che contemplando il mistero dell’incarnazione di Dio seppe decifrare il disegno salvifico di Dio. Questo è proprio il contenuto del Prologo del Vangelo di Giovanni che c’è viene offerto: una meditazione sul Verbo di Dio che, in Gesù di Nazareth, si è fatto abitante di questo mondo; Parola di Dio prima del tempo, creatrice di vita, che si converte in tempo e vita d’uomo; fatta carne, rese possibile la contemplazione della gloria di Dio. Agendo così, incarnandosi, Dio è rimasto finalmente a disposizione del credente; accampato nel mondo, ha assunto fino in fondo la natura umana, la creazione e la storia degli uomini. Dio è uscito all’incontro nostro attraverso il Verbo, e chi lo riconosce e accoglie riceve il potere di arrivare ad essere figlio di Dio. Solo nel Dio rivelato in Gesù Cristo trova risposta l’enigmatica e contraddittoria situazione dell'uomo, vista nelle sue quattro dimensioni fondamentali: di fronte a se stesso, di fronte agli altri, di fronte alla vita, e di fronte a Dio. La soluzione al conflitto storico se affermare Dio sacrificando l’Uomo, o affermare l’Uomo sacrificando Dio, si trova in chi è il “vero Dio e vero Uomo”: Gesù Cristo Signore Nostro. “In realtà il mistero dell’uomo solo si chiarisce nel mistero del Verbo Incarnato” (GS, 22). Nessuna meraviglia, dunque, che il Prologo raggiunga il suo culmine nell’espressione sopra citata: «Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi» (Gv 1,14). È la confessione di un Dio che non volle rimanere indifferente al nostro mondo, di un Dio che non sopportò essere totalmente differente di noi, di un Dio che volle essere “Dio-con-noi” facendosi “Uomo-come noi”. Un Dio, così vicino, così uguale, non può che destare in noi sorpresa e affetto, meraviglia e amore. 4 Il Dio che ha fatto l’uomo a sua immagine e sua somiglianza (Gen 1,27), finì per farsi Lui stesso immagine e somiglianza dell’uomo (Gv 1, 14). Questa decisione di Dio non la riusciremmo a capire bene, se non potessimo intravvedere le conseguenze che ha per noi: se Gesù di Nazareth è stato la via che Dio ha percorso per venire fra gli uomini, Gesù di Nazareth deve essere il cammino che dobbiamo seguire per arrivare fino a Dio. E quanto più facciamo nostro il suo modo di vivere l’esistenza umana e quanto più amiamo come Lui ci amò, tanto più apriremo le porte della nostra vita a Lui ed avremo Dio nel nostro pensiero e nei nostri cuori e fra le nostre mani e porteremo a compimento la nostra vocazione: riprodurre fedelmente in noi l’immagine del Figlio di Dio. Se Gesù di Nazareth è il cammino di Dio verso l’uomo, se un uomo concreto è la faccia di Dio, vuol dire –e questa è la seconda conseguenza che dobbiamo assumere come credenti nell'incarnazione di Dio– che l’uomo concreto è il cammino dell’uomo verso Dio. Non possiamo cercare il Dio di Gesù lontano da dove lui è apparso: non è il cielo il luogo della sua presenza ma la terra, dove gli uomini vivono o stentano a vivere. Il Dio fatto Uomo abita fra noi; ogni uomo, specialmente, coloro che sono i più bisognosi, i meno fortunati, i più maltrattati e dimenticati, riflettono meglio il suo volto, e meglio si assomigliano a lui perché è stato lui a identificarsi con loro. Non è questa forse la missione salesiana: rendere visibile l’Amore di Dio ai giovani poveri, abbandonati e pericolanti? Proprio perché viviamo tempi difficili, carichi di sfide, ma anche di opportunità, oggi più che mai il mondo ha bisogno di persone che vivano per annunciare, testimoniare ed additare Gesù, il Dio fatto Uomo. Il Natale, infatti, altro non è che un immenso sì di Dio all’uomo, alla vita, alla libertà, alla pace, allo sviluppo, alla solidarietà, a tutto quanto c’è di buono, di vero, di bello, di nobile, di onorevole. Gesù è la rivelazione di Dio, la verità di Dio e dell’uomo, e riflettendo su questo evento siamo in grado di capire chi è colui che è nato e chi siamo noi. Il bambino di Betlemme è sì un bimbo come gli altri e la nascita di ogni bambino riempie di gioia e di speranza il mondo, ma nello stesso tempo non è un bimbo come gli altri, perché non è soltanto un bambino per i loro genitori, ma è un bambino per tutti gli uomini e donne del mondo. In certo senso, è il nostro bambino. Dobbiamo però fare un altro passo avanti, assolutamente necessario per addentrarci meglio nel mistero, perché il Natale è anche la memoria delle modalità storiche in cui il Figlio di Dio ha compiuto l’incarnazione. Ha scelto la vita del povero e dello sconfitto, perché noi potessimo scorgere la potenza di Dio nella scelta della sua povertà e della sua kenosi. È qui che egli vuole essere cercato, riconosciuto e accolto: come un uomo povero, bisognoso e sofferente, perché egli non solo si è fatto uomo, ma è rimasto tra gli uomini. Con la sua nascita, inoltre, ci ha fatto anche il dono di essere figli: «A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio». Il Natale di Gesù è dunque anche nostro, quello della nostra rinascita a vita nuova. In Lui anche noi siamo stati «predestinati ad essere figli adottivi» del Padre celeste. Se lo stesso Dio ci chiama: «Tu sei mio figlio!», a noi non resta che ringraziarlo e gioire per la nostra partecipazione alla vita divina. 5 Conclusione Vorrei concludere questa riflessione lasciandovi quanto Luca ci presenta come atteggiamenti dei personaggi che prendono parte all’avvenimento della nascita di Gesù: la gente, Maria e i pastori (Lc 2:1-20). L’evangelista ci dice in questo modo qual è il modo migliore di reagire e di comportarsi di fronte al mistero. Il modo in cui vengono scritti i versetti dal 18 al 20 è magistrale. In effetti nel versetto 18 dice che «la gente si meravigliava»; nel v.20 ci fa vedere che «i pastori ritornarono glorificando Dio e lodandolo per quel che avevano visto e udito, così come era stato loro detto»; e nel v.19, al centro di tutti, appare «Maria (che) da parte sua conservava tutte queste cose meditandole nel suo cuore». Per Luca non basta una reazione di meraviglia che non porta alla fede, come quella della gente che ascoltava i pastori, e non basta nemmeno l’atteggiamento dei pastori che raccontano quanto è stato loro detto e quanto hanno visto del bambino. Per Luca l’atteggiamento più adeguato di fronte al mistero è quello di Maria, che non comprende tutto ma fa tesoro nel suo cuore finché Dio voglia rivelarle pienamente il significato di quello che vede, e intanto contempla, portando nuovamente la Parola al suo grembo. Nella nascita di Gesù, Maria ci insegna ad essere uomini di interiorità, di intensa spiritualità, frutto del nostro ascolto fedele ed attento della Parola, della meditazione paziente e religiosa e della contemplazione devota e rispettosa, cercando di penetrarne i significati più profondi. Solo così potremo “annunciare agli altri ciò che abbiamo visto e udito, quel che le nostre mani hanno toccato: la Vita”. Solo così riusciremo a essere degli evangelizzatori credibili, avendo creduto prima alla Parola che annunciamo e avendo sperimentato in noi stessi la sua verità di buona nuova. Solo così potremo incarnare la salvezza per coloro a cui Dio ci invia, i giovani, assumendo la loro cultura e rispondendo alle loro aspettative profonde di felicità, di vita e di amore. Si deve superare il sentimento facile e l’emozione inconsistente della gente che solo si meraviglia, ascoltando l’annuncio. Bisogna anche saper andare oltre la fretta dei pastori, a cui pare basti un primo annuncio della buona nuova per correre subito a divulgarla. Bisogna fare nostra l’interiorità di Maria che “conservava tutte queste cose meditandole in cuor suo”. Occorre rimanere presso Dio, in dio e con Dio, per ottenere la vita eterna senza fine nella gioia del Paradiso.


Dato a Roma nella Sede Episcopale il 06 Febbraio dell'Anno del Signore 2021
Nel VI Anno del Ministero Episcopale


+ Salvatore Micalef
Vescovo Ordinario
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